Purtroppo anche l’America ci dà i suoi ‘indignati’: arriva l’Occupy Wall Street
03 Ottobre 2011
Chi avrebbe mai immaginato un’America indignata sullo stile delle recenti manifestazioni europee? Soprattutto a New York, nella città simbolo del “farcela da soli”, del “self made man”, in un paese dove la ricchezza non è mai stata oggetto di sentimenti anti capitalisti, ma al contrario è sempre stata un qualcosa da emulare e a cui aspirare. Come causa storica di questo atteggiamento è sempre stato additata, da Max Weber in poi, l’etica del protestantesimo, per cui un successo tangibile in terra è preannuncio di una salvezza futura. Se una persona fallisce dunque, la colpa è riconducibile soltanto all’individuo ed è rimasta indissolubile l’idea che “l’unico motivo per cui uno non riesce ad avere successo è perché non ho lavorato duro abbastanza”.
Dopo i più di settecento arresti, sabato scorso sul Brooklyn Bridge, tra gli attivisti del crescente movimento “Occupy Wall Street”, il mito che un lavoro duro è sempre renumerato dal successo sembra aver riscontrato un duro colpo. Almeno sembra essere così nell’immaginario dei manifestanti, che da poche decine sono diventati, in meno di due settimane, già diverse migliaia. Le scaramucce con la polizia nel fine settimana hanno dato nuovo slancio al movimento: domenica i primi manifestanti si sono accampati a Washington e come funghi sono apparse organizzazioni parallele a Chicago e a Boston – dove oggi è prevista una manifestazione davanti alla sede della Federal Reserve locale.
Nonostante il differente retaggio culturale, una somiglianza con gli omonimi indignati europei però c’è: la difficoltà a trovare idee e alternative da proporre al “sistema” che i manifestanti criticano. “Mi spinge la frustrazione verso una situazione in cui non si fa quasi niente”, ha detto all’Occidentale Sam Bristol, 23 anni, attore di teatro presente alla manifestazione di domenica. Nelle ormai tre settimane di manifestazioni, lo slogan più comune è stato “siamo il 99 per cento della popolazione”, una critica esplicata a quell’un per cento dell’America che possiede quasi il novanta per cento della ricchezza del paese.
A oggi, il messaggio del movimento newyorchese sembra aver fatto breccia oltre il giro degli studenti e dei tanti disoccupati che sono accorsi a passare le notti a Zuccotti Park nel mezzo del distretto finanziario di Manhattan. Sull’onda del crescente successo, nel fine settimana sono arrivati i primi endorsment da parte dell’”establishment”. Sabato, in mattinata, ha fatto visita l’anticapitalista più famoso degli Stati Uniti: il regista e scrittore Michael Moore. Nel pomeriggio, invece, è arrivato il filosofo e professore di Princeton, mito di molta dell’America di sinistra, Cornel West e poi ancora lo scrittore vincitore del Pulitzer prize, Jonathan Franzen, l’ex governatore dello stato di New York, David Paterson, e infine il sostegno del potente sindacato degli insegnati.
La rabbia dei manifestanti è “giusta”, ha commentato l’opinionista Nicholas Kristof sul New York Times di ieri. Ma come a Madrid sei mesi fa, la domanda principale è: cosa vogliono ottenere questi indignati? Per Kristof non è assolutamente chiaro e la mera frustrazione, anche se giustificata, rischia di consumare il movimento in un nulla di fatto. Ma ciò che preoccupa, come confessa Sam Bristol, è il dato politico: “Vogliamo che le cosi cambino, ma chi voteremo alle prossime elezioni? Stiamo manifestando contro il presidente (Obama ndr) che in teoria dovrebbe essere il nostro rappresentante di scelta; vorremmo che gli escamotage per pagare meno tasse fossero levati, ma Obama non sembra avere il peso politico per farlo e i repubblicani non ne hanno alcuna intenzione. E a noi cosa resta da fare?”.
Le domande che attanagliano i manifestanti sono molte e la maggioranza purtroppo rimangono senza risposta. Intanto però, i numeri crescono e l’organizzazione migliora di giorno in giorno, racconta Sam. A oggi, il piazzale è già diviso tra una libreria temporanea, una zona caffè, una zona per il pronto intervento e addirittura un ufficio stampa. Però ora mancano ancora le idee, Kristof sull’editoriale del New York Times ne ha suggerite diverse – dalla Tobin tax sulle transazioni internazionali adesso di moda in Europa alle nuove regole Basilea III per il sistema bancario americano – speriamo che “Occupy Wall Street” ne prenda qualcuna in considerazione.