
Putin alla riconquista dell’est Europa

21 Gennaio 2008
Nei giorni scorsi ha fatto tanto clamore la notizia
del ripristino delle parate militari sulla Piazza Rossa di Mosca. Ma per
vederle non dobbiamo attendere il mese di maggio poiché una sfilata in perfetto
stile sovietico il presidente russo Vladimir Putin l’ha fatta in Bulgaria con
l’unica differenza che al posto dei generali c’erano i manager dei colossi
statali dell’energia.
Il
paragone non finisce qui, però. Anche perché nella visita ufficiale di Putin
c’è molto simbolismo, a fianco ovviamente della sostanza. A partire dal fatto
che il capo della Federazione russa ha scelto Sofia come destinazione della sua
ultima visita ufficiale prima della scadenza del secondo mandato presidenziale.
Le parole di grande amicizia e antica fratellanza accompagnate dalla firma di
ben otto accordi bilaterali (tre dei quali nell’ambito del settore cruciale dell’energia)
non fanno che confermare in modo brillante la strategia globale che il Cremlino
sta attuando dal 2005 in poi e che sta agevolando il ritorno della Russia come
attore globale a pari con le altre grandi potenze dei nostri tempi.
Il
piano era semplice e chiaro sin dall’inizio: agire sulla scena europea e
mondiale con l’aiuto delle ingenti risorse naturali per creare dipendenza da
parte dei vari interlocutori e assicurare un’estensione del perimetro di
influenza geo-politica. Nulla di più facile in uno scenario che vede l’Unione Europea
in una fase di stasi e gli Stati Uniti ancora in difficoltà con la gestione
della situazione irachena e in piena campagna delle primarie presidenziali.
Infastidita ad est dalle emergenti Cina e India, la Russia poteva agire solo ad
ovest e qui ha trovato terreno fertile in Paesi ex comunisti con una vita
democratica ed economica relativamente giovani e per questo motivo sensibili e
suscettibili di influenze%2C soprattutto quando imposte con le nuove armi
strategiche: gas e petrolio. Sia pure piuttosto piccoli i Paesi baltici si
sono tuttavia rivelati resistenti e per nulla nostalgici al passato recente di
dominio sovietico. Dal canto suo, la Polonia rappresentava un muro e scontrarsi
direttamente con Varsavia, specie nel periodo del tandem Kaczynski, ha prodotto
dei contraccolpi pesanti per Mosca.
Dunque,
l’obiettivo migliore sono i Balcani, perché ancora caratterizzati da
instabilità politica e perché area di passaggio delle vitali forniture
energetiche per il mercato europeo (in modo da renderlo ancora più dipendente
dalla Russia). A cimentare questa situazione, ecco che arrivano tre intese che
Putin è riuscito a mettere a segno venerdì nella capitale bulgara. Insieme
all’accordo sulla realizzazione dell’oleodotto Burgas-Alexandroupolis e alla
costruzione di una nuova centrale nucleare sul fiume Danubio, la delegazione
russa ha portato a casa anche il benestare di Sofia sulla partecipazione al
progetto South Stream – un gasdotto che attraverserà il fondale del Mar Nero
raggiungendo la costa bulgara e da lì si dividerà in due principali direzioni,
una verso nord-est e l’altra verso sud-ovest. Il progetto è tuttora nella fase di
studio e vede l’italiana Eni come partner principale di Gazprom. Il sì di Sofia
completa il quadro. Mentre il tracciato del North Stream ha privato la Polonia
e i Paesi baltici della possibilità di avere voce in capitolo, il Blue Stream
e, da ultimo, il South Stream hanno fatto sì che né la Turchia, né la Bulgaria
potessero ambire ad un controllo esclusivo dei traffici energetici in passaggio
dal sud-est. L’offensiva russa ha in pratica messo fuori gioco l’alternativa
del grande progetto Nabucco che, tra l’altro, è stato compromesso anche da
diverse reticenze e perplessità dei paesi centro-europei che dovevano essere
coinvolti. E’ stata emblematica a questo proposito la famosa battuta del
presidente della Gazprom, Alexei Miller, il quale ha commentato con palese
ironia: “Nabucco? Questo non è un gasdotto ma un’opera”. Così, l’unico vero
monopolio sugli approvvigionamenti della direttrice est-ovest rimane di fatto
nelle mani russe. A suggellare questo scenario sono state anche le recenti
intese con Iran, Turkmenistan e Algeria.
D’altro
canto, Bruxelles osserva inquieta le manovre russe ed è ancora in cerca di una
politica energetica comune che possa ridurre la sua dipendenza da Mosca. Un
compito assai arduo visto che mancano sempre le risorse necessarie. La
Commissione punta tutto sugli impegni per le energie rinnovabili e la
separazione tra produzione e trasporto (l’unbundling), ma ciò non sembra
sufficiente a risolvere nell’immediato la questione degli approvvigionamenti.
Questo pone i Paesi europei, soprattutto quelli dell’Europa dell’est, davanti
alla scelta tra una politica energetica ‘più europea’ – ma senza possibilità e
mezzi concreti – e una ‘più nazionale’, fatta principalmente di accordi
stipulati in autonomia con i fornitori. Nulla di nuovo: lo stesso dilemma,
sicuramente non molto favorevole all’integrazione, era emerso già in passato e
continua ad esistere anche in ambito sicurezza: fare da sé o in partnership con gli
Stati Uniti (vedi lo scudo spaziale).
Specie
nei Balcani, si è sempre trattato di scegliere da che parte stare. Scelte non
sempre indolore, come anche in questo caso. A Sofia, il presidente russo è
stato accolto in pompa magna dalle autorità, ma ha dovuto vedere per le strade
della città anche manifesti con il suo volto corredato dall’invito
inequivocabile “Putin go home!”. A guidare le proteste e a gridare alla
svendita degli interessi nazionali ed europei è stata l’opposizione di
centro-destra, che rappresenta ora un fantasma di quella pletora di partiti che
all’inizio degli anni Novanta si era unita sotto il minimo comun denominatore
dell’anticomunismo e dell’avversione nei confronti di Mosca. Questo conflitto
all’interno della società bulgara si ripropone anche adesso, al punto tale che
qualcuno ha suggerito di non lasciare i politici bulgari da soli con la
controparte russa perché potrebbero combinare guai come quelli subiti per quasi
mezzo secolo.
“Ogni
cosa nuova non è che una cosa vecchia e ben dimenticata”, dice un saggio
proverbio balcanico. E gli eventi di queste settimane ne sono la conferma. La
Russia non ha abbandonato le sue spinte imperialiste e la sua politica plurisecolare
di presenza e dominio sugli Stretti. L’energia e la crisi del Kosovo sono
un’opportunità d’oro per dar riprendere queste ambizioni.