Qual è la posizione europea sull’Iran? Bush torna a casa senza averlo capito
17 Giugno 2008
Si è concluso ieri a Londra l’ultimo viaggio europeo di George W. Bush in veste di presidente degli Stati Uniti. Nonostante la cordialità con cui il presidente americano è stato accolto, la sua visita è stata priva di reale mordente politico. In particolare, il viaggio di Bush non è stato sufficiente a chiarire la posizione degli alleati europei rispetto alla possibilità che l’Iran acquisisca armi nucleari.
E’ un peccato, ma la cosa non sorprende. Nel sistema politico americano i mesi conclusivi del secondo mandato presidenziale sono caratterizzati da una progressiva perdita di rilevanza politica del comandante in capo. Nel linguaggio politico anglosassone il presidente diventa un’“anatra zoppa”, un attore quasi ininfluente nel panorama politico del Paese. Questo elemento, associato alla radicata timidezza delle cancellerie europee nell’affrontare con maggiore decisione la questione iraniana, ha contribuito ad annacquare i risultati di un incontro che viceversa avrebbe potuto giovare grandemente alla stabilità e durevolezza della relazione transatlantica.
L’agenda del presidente è stata piena di impegni. Il viaggio, iniziato lo scorso 9 giugno, doveva servire a rafforzare le relazioni transatlantiche, creare un fronte comune per contrastare un Iran nucleare e incoraggiare un maggiore impegno degli alleati europei in Afghanistan. Bush ha partecipato al vertice annuale tra l’Unione europea e gli Stati Uniti a Brdo in Slovenia; ha incontrato i leader di Germania, Italia, Francia e Gran Bretagna e ha reso omaggio a papa Benedetto XVI con una breve visita al Vaticano.
Le premesse erano quelle di un addio in grande stile a quelli che, nonostante i dissapori e disaccordi seguiti all’invasione dell’Iraq nel 2003, rimangono i migliori alleati americani in Europa. Non sono mancate la riaffermazione dell’importanza della relazione transatlantica, il riconoscimento della relazione economica tra Stati Uniti ed Unione europea e le dichiarazioni di cooperazione sulla lotta al cambiamento del clima, sull’Iraq e sull’Afghanistan. E non è neanche mancata l’armonia necessaria per invocare sanzioni economiche più stringenti di quelle in vigore per impedire all’Iran di acquisire armi nucleari. Eppure il quadro è risultato incompleto. Come è stato notato con sorpresa dai media europei e americani, la visita di Bush non ha destato grande interesse tra il pubblico europeo. In contrasto con le vivaci proteste e manifestazioni degli anni trascorsi, il tour del presidente è stato largamente ignorato dalle sinistre europee, persino in Germania – dove una manifestazione di protesta non si nega a nessuno. L’anatra zoppa non ha più molto da offrire: gli alleati europei prendono nota e riflettono sul da farsi.
Persa la propria credibilità nella guerra maldestramente motivata ed eseguita contro Saddam Hussein, Bush non ha potuto affrontare con la risolutezza che avrebbe desiderato la minaccia presentata da Teheran agli Stati Uniti e alla stabilità del sistema internazionale. L’Europa è rimasta a guardare, sperando di non doversi confrontare con il problema e, nel caso, di poterlo fare con la collaborazione di un presidente americano meno unilateralista. E tuttavia chi si augura che le nuove elezioni presidenziali negli Stati Uniti portino ad un’inversione di rotta radicale nella politica estera americana è destinato a rimanere deluso. Gli attentati terroristici dell’undici settembre hanno cambiato la percezione che gli Stati Uniti avevano di sé e del proprio ruolo nel sistema internazionale, anche rispetto agli alleati europei. La convinzione che l’egemone americano abbia una natura benigna e debba difendere la propria posizione di supremazia non è propria solo di Bush e della sua amministrazione, ma è condivisa dalla classe dirigente americana in modo, per così dire, bipartisan. Il mondo unipolare in cui gli Stati Uniti ritengono, se necessario, di potere agire al di fuori delle istituzioni internazionali e, dunque, al di sopra del sistema multilaterale auspicato dall’Europa, è una realtà geopolitica di medio-lungo periodo, con cui il Vecchio Continente dovrà confrontarsi a prescindere da chi siederà alla Casa Bianca dopo il 2008. Certo, un’amministrazione meno influenzata dai neoconservatori farà più attenzione alle organizzazioni internazionali e coltiverà maggiormente i propri canali diplomatici e i propri alleati, ma dopo gli attentati terroristici dell’undici settembre la protezione, preventiva e non, della sicurezza nazionale americana rimarrà la priorità assoluta di qualsiasi presidente alla guida dell’egemone mondiale. Non per niente i candidati presidenziali Barack Obama e John McCain si riservano entrambi la possibilità di utilizzare un attacco militare per impedire che l’Iran acquisisca armi nucleari, a prescindere dalla posizione della comunità internazionale.
Il problema Teheran rimane dunque in sospeso nei rapporti tra Stati Uniti e gli alleati europei nonostante la visita di Bush. Sabato il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha opposto un secco rifiuto all’offerta dell’Unione europea, appoggiata da Stati Uniti, Russia e Cina, di relazioni politiche ed economiche più favorevoli in cambio di una sospensione dei programmi di arricchimento dell’uranio in corso in Iran. E’ probabile che si torni alle Nazioni Unite per implementare sanzioni economiche più severe. Ma la vera questione rimane ed è quella che dal 2003 risuona nei corridoi del potere di Washington: se l’Iran fosse prossimo ad acquisire la bomba atomica e gli Stati Uniti decidessero di attaccare, cosa farebbero gli alleati europei?
C’è da augurarsi che il prossimo presidente americano aiuti gli alleati europei a chiarire la propria posizione agli Stati Uniti, all’Iran e al resto della comunità internazionale. Come si dice: patti chiari, amicizia lunga. Viceversa, al momento del confronto inevitabile con Teheran la stabilità della relazione transatlantica verrà messa in discussione da una crisi ancor più severa di quella che ha allontanato l’America dall’Europa durante il mandato di George W. Bush. E non si potrà nemmeno più dare la colpa ai neoconservatori.