Quale declino americano? Siamo i primi al mondo e ci rimarremo
01 Novembre 2008
di Robert Kagan
Barack Obama è davvero il candidato del declino americano? A stare a sentire alcuni dei suoi sostenitori tra gli opinionisti di politica estera si potrebbe pensarlo. Francis Fukuyama dice che appoggia Obama perché crede che il candidato democratico gestirebbe meglio di McCain il declino americano. Ogni settimana Fareed Zakaria celebra il “realismo” di Obama, intendendo la sua passiva accettazione di “un mondo post-americano”. Obama, bisogna dirlo, ha fatto poco per meritarsi le lodi di questi “declinisti”. La sua visione del futuro degli Stati Uniti, per lo meno come si è manifestata in questa campagna elettorale, è stata, come giusto, ottimista, che è la ragione per la quale sta andando bene nei sondaggi. Se parlasse anche appena lontanamente come Zakaria e Fukuyama gli imputano di fare avrebbe già perso.
Si spera che chiunque vinca la prossima settimana accantoni rapidamente tutto questo strambo “declinismo” che sembra tornare di moda ogni 10 anni. Alla fine degli anni Settanta l’establishment della politica estera era tutto preso da quelli che Cyrus Vance definì “i limiti del nostro potere”. Alla fine degli anni Ottanta lo studioso Paul Kennedy predisse il collasso imminente del potere americano a causa dell’“iper-estensione imperiale”. Alla fine degli anni Novanta Samuel P. Huntington parlava dell’isolamento americano e della “superpotenza solitaria”. Oggi si parla del “mondo post-americano”.
E tuttavia ci sono poche prove a carico del declino degli Stati Uniti. E’ vero che, come nota Zakaria, la ruota panoramica più alta del mondo è a Singapore e il casinò più grande a Macao. Ma se guardiamo a indicatori di potere più seri, gli Stati Uniti non sono in declino, nemmeno relativamente alle altre potenze. L’anno scorso la quota americana dell’economia globale è stata pari a circa il 21 per cento, a paragone del 23 per cento nel 1990, al 22 per cento nel 1980 al 24 per cento nel 1960. Gli Stati Uniti stanno attraversando una dolorosa crisi finanziaria, ma lo stesso vale per tutte le altre principali economie mondiali. Anzi, se la storia insegna, l’adattabile economia americana sarà la prima a uscire dalla recessione. E alla fine potrebbe addirittura trovarsi in una posizione migliore rispetto all’economia globale.
Per quanto riguarda il potere militare, quello americano è impareggiabile. Gli eserciti russo e cinese stanno crescendo, ma sta crescendo anche l’esercito americano che continua ad essere tecnologicamente superiore ad entrambi. La potenza russa e quella cinese stanno crescendo relativamente ai loro vicini e nelle loro regioni, e questo causerà problemi strategici, ma sta succedendo perché gli alleati americani, soprattutto in Europa, hanno sistematicamente trascurato le proprie difese.
Dai sondaggi globali risulta che l’immagine degli Stati Uniti è senza dubbio peggiorata, ma gli effetti concreti di questo peggioramento non sono chiari. L’immagine dell’America di oggi è peggiore di quella dell’America degli anni Sessanta e di primi anni Settanta con la guerra in Vietnam, la rivolta di Watts, il massacro di My Lai, l’assassinio di John F. Kennedy, Martin Luther King e Bobby Kennedy e il Watergate? Qualcuno si ricorda che milioni di manifestanti anti-americani scesero in piazza in quegli anni in Europa?
Oggi, nonostante i sondaggi, il Presidente Bush è riuscito a migliorare le relazioni con gli alleati in Europa e in Asia: il prossimo presidente sarà nella posizione di potenziarle ulteriormente. Nel corso dei passati vent’anni le teorie realiste hanno ripetutamente predetto che il mondo avrebbe trovato un proprio equilibrio in opposizione agli Stati Uniti. Eppure Paesi come l’India si stanno avvicinando agli Stati Uniti e se si sta verificando un contro bilanciamento è verso la Cina, la Russia e l’Iran.
Un esperto misurato come Richard Haass riconosce che gli Stati Uniti rimangono “la singola più grande potenza del mondo” ma ammonisce che “gli Stati Uniti non possono dominare, ed ancor meno dettare le regole, ed aspettarsi che gli altri li seguano”. E’ vero. Ma quando non è stato vero? C’è mai stato un momento in cui gli Stati Uniti abbiano dominato, dettato le regole e fatto sempre a modo proprio?
Parecchi declinisti si immaginano un passato mitico in cui il mondo ballava al ritmo delle regole americane. Dappertutto cresce la nostalgia per i meravigliosi anni del Secondo Dopoguerra, dominati dal potere americano. Ma tra il 1945 e il 1965 gli Stati Uniti patirono una disastro dopo l’altro: la “resa” della Cina al comunismo, l’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord, la sperimentazione della bomba all’idrogeno da parte dei sovietici, le agitazioni del nazionalismo post-coloniale in Indocina – ciascuno di questi eventi si dimostrò essere una sconfitta di prim’ordine. E il potere americano non poté né controllarli né gestirli con successo.
Niente di quello che è successo nei passati dieci anni, eccezion fatta per l’11 di settembre, può pareggiare il danno fatto alla posizione degli Stati Uniti nel mondo di allora. Molti si chiedono “E l’Iraq?”. Tuttavia anche in Medio Oriente, dove l’immagine degli Stati Uniti ha sofferto di più a causa della guerra, non c’è stato alcun riallineamento strategico fondamentale. Gli alleati di lunga data degli Stati Uniti sono rimasti alleati e l’Iraq, che un tempo ci era nemico adesso è anch’esso un alleato. Facciamo un paragone con le sconfitte strategiche subite durante la Guerra Fredda. Negli anni Cinquanta e Sessanta il movimento nazionalista pan-arabo cancellò i governi pro-americani e aprì le porte a un coinvolgimento sovietico senza precedenti che includeva una quasi alleanza tra Mosca e l’Egitto di Gamal Abdel Nasser e la Siria. Nel 1979 il pilastro centrale della strategia americana venne meno quando lo Shah pro-americano venne deposto dalla rivoluzione dell’Ayatollah Khomeini. Quegli eventi produssero un cambiamento radicale negli equilibri strategici di cui gli Stati Uniti stanno ancora soffrendo le conseguenze. Dopo la guerra in Iraq non si è verificato niente di simile.
Forse allora sarebbe bene mantenere un po’ di prospettiva. Il pericolo del declinismo di oggi non sta nel fatto che sia vero, ma nella possibilità che il prossimo presidente agisca come se lo fosse. La buona notizia è che dubito che uno dei due candidati lo faccia. E se ci dovesse provare sono convito che gli americani disapproverebbero.
© Washington Post
Traduzione Ida Garibaldi