Quando De Gasperi pensava l’Italia senza guelfi e ghibellini

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Quando De Gasperi pensava l’Italia senza guelfi e ghibellini

Quando De Gasperi pensava l’Italia senza guelfi e ghibellini

13 Gennaio 2008

Esiste un filo
conduttore che domina la ricostruzione storica di Giovanni Di Capua sugli anni
del centrismo degasperiano (Il centrismo
plurale di Alcide De Gasperi,
Tarquinia, Ebe, 2007): l’impegno politico di
De Gasperi poggiava su un’idea di centrismo
plurale
, inteso come sforzo di edificare il nuovo Stato sulla base di una
linea di collaborazione tra laici e cattolici da attuarsi sul terreno della
democrazia. Di una precisa concezione della democrazia, maturata dalle sue
riflessioni sull’esperienza dello Zentrum
tedesco e dalla formazione personale vissuta negli anni di militanza
politica come parlamentare presso la dieta asburgica. Entrambe suggerivano che
le libertà democratiche si sarebbero più facilmente affermate in Italia
superando lo storico steccato della contrapposizione tra guelfi e ghibellini e
accettando le regole-base del funzionamento delle moderne democrazie:
l’autonomia della politica dalla religione; la collaborazione all’interno dello
stesso partito tra cattolici e cristiani di altre osservanze; la tolleranza
come metodo di valutazione politica; il rifiuto della violenza e delle sue manifestazioni
estreme, reazionarie e rivoluzionarie; il rispetto del pluralismo religioso nel
rifiuto della religione di Stato.

Secondo Di
Capua, dunque, la politica degasperiana si sarebbe declinata interamente a
partire dal rispetto e dall’affermazione dell’autonomia, intesa in tutte le sue
declinazioni: della politica, della Chiesa, dello Stato. Con le implicazioni
che in ogni ambito ne sarebbero derivate.

In primo luogo
rispetto alla costruzione del nuovo partito: «dei cattolici» e non cattolico,
per questa ragione distante da quel modello integralista e ideologico voluto e
rivendicato dai dossettiani e mai condiviso da De Gasperi.

In secondo luogo
autonomia dalla Chiesa, nel rifiuto di quel confessionalismo che De Gasperi non
avrebbe mancato di denunciare, con precise prese di posizione nei confronti
delle scelte del pontificato di Pio XII e dei tentativi geddiani di imporre un
vincolo di subalternità all’azione di un partito poco “obbediente”.

In terzo luogo
dello Stato, nella difesa del federalismo ereditato dall’esperienza
dell’Impero, della lotta contro la pace punitiva, dell’impegno per la
costruzione di un’Europa nel rispetto dei particolarismi nazionali e nel
recupero della sua dimensione tradizionale, di chiara matrice cattolica.

Infine nella
tutela di una democrazia giovane, troppo seriamente minacciata da forze capaci
di renderla nuovamente preda di derive totalitarie.

E, dunque, in
questa prospettiva il centrismo appariva la soluzione più funzionale al
consolidamento delle istituzioni parlamentari e democratiche, mentre il suo
carattere “plurale”, attuato nel metodo e nella forma di governo, derivava da
una precisa concezione delle democrazia, in cui il dato religioso e quello
laico rimanevano fermamente separati.

Il superamento
della frattura risorgimentale e unitaria, che aveva creato un fossato tra
cattolici e laici, al punto da considerare i primi una sorta di contro-Stato, o
di anti Stato, rispetto all’unificazione, diventa il punto di forza della
proposta degasperiana che riusciva a fare della Dc una sorta di cerniera
democratica, anti integralista e gradualista nei programmi e nelle alleanze.

Così
l’equilibrio democratico equivaleva, per De Gasperi, a restare costantemente
nella linea del rispetto di ogni tendenza politica e religiosa, nel rifiuto di
qualsiasi forzatura, tanto a destra, quanto a sinistra.

Se, tuttavia,
questa impostazione spiega la politica delle alleanze interne e internazionali,
meno convincente appare la ricostruzione dell’anticomunismo degasperiano. Forse
per la scelta di non concedere troppo al dato religioso, Di Capua ne fornisce
una spiegazione non troppo convincente, o almeno, parziale. Nella sua lettura
esso deriverebbe dall’attenzione alle istanze del “popolo minuto”, i più umili
e i meno protetti, che raramente riusciva ad esprimere una propria
rappresentanza e finiva oppresso dal demagogismo delle sinistre, dal
rivoluzionarismo e dall’ideologismo dei massimalisti europei. Un po’ poco per
un leader che se è vero che alla vigilia della campagna elettorale del 1948 precisava
in sede di Consiglio Nazionale che bisognava evitare di fare campagne «contro»,
non poteva fare a meno di sottolineare, nella stessa sede, che se i comunisti
avessero continuato nell’azione di destabilizzazione delle democrazia, la Democrazia cristiana
sarebbe stata anticomunista.

De Gasperi
rifiuta lo Stato confessionale, non accetta l’ingerenza della Chiesa nella vita
politica, conosce bene la distinzione dei due piani e i pericoli che possono
derivare da una loro commistione. Ma è un vero cattolico. Chiede la
mobilitazione della Chiesa contro il Fronte popolare, difende con l’azione
politica, che è e rimane laica, la libertà di essere cattolici. Sceglie
l’Occidente, gli Stati Uniti, l’Europa per ragioni certamente materiali e
pratiche, ma anche perché cosciente di appartenere a quella civiltà. È forse su
questo, oltre che su piattaforme programmatiche ed elettorali, che avviene
l’incontro con quella Italia laica che ne condivide le regole, nella difesa di
una democrazia occidentale di cui il
cristianesimo, lo si accetti o meno, nel rispetto delle reciproche sfere di
influenza, è elemento costitutivo.

Giovanni Di Capua, Il centrismo plurale di Alcide De Gasperi, Tarquinia, Ebe, 2007