Quando e perché riescono a prevalere le minoranze violente

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Quando e perché riescono a prevalere le minoranze violente

02 Marzo 2012

di D. C.

In Italia ci si meraviglia di un fatto spesso ricorrente, nel corso di quasi due secoli di storia: la capacità delle minoranze violente di imporsi come attori politici con i quali bisogna fare i conti e, nei casi estremi, di diventare la nuova classe dirigente. E’ capitato con il fascismo in marcia su Roma ma è capitato anche, in qualche modo, con il 68, quando una minoranza di studenti ‘contestatori’, caratterizzata da uno stile non pacifico e da un linguaggio minaccioso e dissacratorio, non solo cambiò il volto della scuola italiana ma incise, in profondità, sui costumi, sull’immaginario e sugli atteggiamenti collettivi della comunità nazionale, innescando se non una rivoluzione politica (come nel caso del fascismo) sicuramente una ‘rivoluzione culturale’, come intuì subito il geniale Augusto Del Noce che ne diede una interpretazione, per così dire, filosofico-epocale

La spiegazione del fenomeno, in realtà, non va ricercata tanto nelle specifiche istanze di cui la minoranza violenta è portatrice quanto nella distribuzione del potere (economico, politico, culturale) che caratterizza una società determinata. Per dirla in poche battute, non è rilevante l’essere in tanti o in pochi sulla barricata dell’anti-Stato o dell’anti-establishment: decisivo, invece, è il numero di quanti, dall’altra parte, sono disposti a difendere l’ordine civile vigente e a battersi, rischiando la vita e i beni, perché sopravviva. La politica, nei momenti di crisi profonda di un ‘sistema’, assurge a rappresentazione altamente drammatica: sul palcoscenico, si confrontano i difensori delle istituzioni, da un lato, e i ‘ribelli’, dall’altro, che incarnano l’eterna lotta tra il Bene e il Male a ruoli alterni. A determinare la vittoria degli uni o degli altri non è la consistenza numerica degli attori ma l’atteggiamento degli spettatori.

Se gli ‘insorgenti’ possono contare sull’indifferenza, sull’acquiescenza, sulla tolleranza e, almeno in parte, sul sostegno attivo del pubblico in platea o in galleria, anche se inferiori numericamente, hanno buone chances per prevalere sui loro nemici. Quando ‘la regina del mondo’, l’opinione pubblica, non prende posizione o anzi mostra una sorta di ‘strategia dell’attenzione’ nei confronti dei sovversivi, i guardiani delle istituzioni sono spacciati, le loro ragioni non sembrano più così evidenti e condivise, dubbi e incertezze sul ‘che fare’crescono di giorno in giorno e, a poco a poco, la loro unità e la loro coesione cominciano a sfaldarsi. Nel frattempo, una parte della vecchia classe dirigente investe potere politico e risorse simboliche sul ruolo più comodo e pagante, almeno nelle comunità politiche con bassa legittimazione ( e assenza relativa di valori comuni), quello della ‘mediazione’. Dal vecchio ‘blocco sociale’ si stacca una ‘costola’ che ricerca un dialogo ‘costruttivo’ con gli oppositori <al> sistema per riportarli <nel> sistema e che è disposta a pagare, per la riuscita dell’operazione, un prezzo alto, facendo entrare nel palazzo i rappresentanti dell’anti-Stato e mettendo alla porta i vecchi coinquilini.

Ci si chiede, tuttavia, se a determinare atteggiamenti e comportamenti degli spettatori, che assistono allo scontro tra la minoranza violenta e i custodi della città e che, in definitiva, decidono la vittoria dell’una o degli altri, siano davvero (e sempre) le ‘cause’ e le bandiere che fanno sventolare le avanguardie dell’assalto al cielo. Ora è certamente innegabile che la ‘qualità’ di una rivendicazione sociale, etico-politica, economica sia importante ma, a guardar le cose con disincantato realismo, si è costretti a riconoscere che la ‘contestazione’ raggiunge, in tutto o in parte, i suoi obiettivi soltanto se diventa una risorsa non delle minoranze ‘esterne’ ma delle minoranze ‘interne’ a un assetto di potere. Quando nella competizione democratica aperta e legittima non si riesce a prevalere sugli avversari all’interno del ‘palazzo’, si ha la tentazione di aprire le porte a quanti sono rimasti fuori—gli autoesclusi, gli’irriducibili’, gli uomini, i ceti sociali, i movimenti che non si riconoscono affatto nella costituzione formale e materiale vigente—e di arruolarli nel proprio campo, allo scopo di rimediare alla propria intrinseca debolezza ideologica e progettuale col sangue nuovo delle ‘tribù barbariche’.

Ne deriva che l’atteggiamento di fronte alle minoranze violente finisce per costituire l’indice più sicuro per valutare la compattezza e la solidarietà della classe politica, la solidità dell’arena istituzionale in cui competono per il potere e il grado di lealtà nei confronti delle ‘regole del gioco’. Se i competitori istituzionali—ad es., laburisti e conservatori, che si avvicendano al timone del governo o nei ranghi dell’opposizione ‘di Sua Maestà Britannica’—hanno a cuore, prima dei loro interessi specifici di partito, la ragione superiore dello Stato e si sanno, in questo, sostenuti dalla <potenza dell’opinione pubblica>, le dimostrazioni violente dinanzi a Westminster possono venire represse rompendo qualche testa, dove sia impossibile evitarlo, senza il rischio, per le autorità, di vedersi mettere sotto accusa e criminalizzate dagli organi di stampa, dalle chiese, dai cenacoli intellettuali, dalle associazioni buoniste, dai talk show televisivi.

Laddove, invece, la classe politica è fortemente divisa al suo interno –specie quando storicamente è figlia di ideologie inconciliabili–la componente al governo (qualunque essa sia) ha un solo incubo: <che ci scappi il morto>, mentre le componente all’opposizione, pur deplorando il sacrificio di una vita umana, trova, insperatamente, nella repressione violenta contro la ’minoranza violenta’una risorsa simbolica di inestimabile valore (emblematico il caso del giovane Carlo Giuliani), qualcosa da sbattere per anni in faccia al partito avverso responsabile del morto ‘innocente’.

Una riprova di quanto si è detto sta nella sconfitta del brigatismo rosso. Al tempo di Moro e di Berlinguer, i due partiti più forti del paese, la DC e il PCI, riuscirono a mettere da parte le loro contrapposizioni ideologiche, per non ripetere gli errori del Cile di Allende, sprofondato nella guerra civile e nella dittatura nel tentativo di instaurare un ibrido regime castrista-democratico–vanno rilette, in proposito, le lucidissime riflessioni di Jean François Revel in Come finiscono le democrazie. La violenza della polizia e degli organi giudiziari, nel reprimere i proletari armati fu ribattezzata, allora, come ‘impiego della forza legittima dello Stato al servizio della Repubblica democratica e antifascista’. La stessa violenza poliziesca a difesa di esponenti di un partito liberamente eletto dai cittadini e intenzionato a tenere a Genova il suo congresso nazionale era stata, invece, retrocessa, anni prima, a rigurgito dell’eterno fascismo annidato nei bassifondi del Viminale.

Si potrebbe dire, parafrasando il relativismo epistemologico contemporaneo, che la <violenza’ delle ‘minoranze violente> non è un fatto ma un’interpretazione. Una identica fenomenologia—pugni, calci, sassaiole contro le forze dell’ordine, danni a negozi e uffici pubblici, interruzioni di pubblico servizio—può configurarsi come un’intollerabile e ingiustificabile offesa ai diritti e alle libertà dei cittadini e dei loro rappresentanti ufficiali o come un’espressione, sia pur patologica e ‘fuori le righe’,di esigenze giuste che il ‘sistema’ dovrebbe  prendere in considerazione. Tutto dipende non dalla ‘cosa in sé’ma dall’accordo e dal disaccordo delle due componenti (diciamo, per semplificare enormemente, di destra e di sinistra) della classe politica che, a seconda dei casi, etichettano il ‘tragico evento’ con un cartellino o con un altro.

In ogni caso, la violenza delle ‘minoranze violente’ non va sottovalutata: se ci sono attori politici disposti a dar fuoco alle polveri è segno che si pensa di poter contare su una parte consistente dell’opinione pubblica e si spera di poter arruolare quella sezione della ‘classe politica’ che, nella spartizione della torta del potere e del prestigio, ritiene di non aver ricevuto abbastanza e guarda a Veio per poter rientrare vittoriosa in Roma.