Quando il “bersellismo” rasenta il razzismo sociale
24 Agosto 2007
Che un pubblicista come Edmondo Berselli–autore di un voluminoso saggio sulla storia della canzone in cui Domenico Modugno è appena citato—possa venir considerato un maitre-à-penser è un segno poco rassicurante dello stato di salute dell’intellighentzia italiana di questi anni. Eppure, dalle trasmissioni televisive ai rotocalchi, dalle interviste radiofoniche alle colonne di ‘Repubblica’, lo si incontra dappertutto: a pontificare a dritta e a manca, a fare analisi sociologiche di lungo ‘sospiro’, a denunciare i mali del calcio italiano etc. Potenza della ‘lobby’ bolognese che riesce a piazzare i suoi uomini non solo a Palazzo Chigi ma in ogni anfratto del potere politico, simbolico ed economico!
In un editoriale apparso sul quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, L’ideologia del forzaleghismo (20 agosto 2007), Berselli parte lancia in resta contro il leader leghista.”Dev’essere all’opera uno dei grandi e ricorrenti paradossi italiani—esordisce– se una delle più squinternate iniziative politiche lanciate nel nostro paese, la rivolta fiscale architettata da Umberto Bossi, è diventata un tema sociale e politico di primo piano”. E insieme prende le difese del cardinale Tarcisio Bertone che, al meeting di Rimini, ricorda al popolo di ‘Comunione e Liberazione’ che pagare le tasse è un dovere. “Bisognerebbe salutare le parole del segretario di stato Vaticano”, commenta con qualche condiscendenza,”come un omaggio all’ovvio. Ma di questi tempi anche l’ovvietà, nella politica italiana, sembra esprimere una salutare controtendenza”.
In un paese come il nostro in cui persino i giustizialisti di ‘Micromega’ si richiamano al liberalismo, non stupisce se soggettivamente il fustigatore del forzaleghismo si senta un erede di Luigi Einaudi. Dovrebbe, però, spiegarci come mai ogni volta che la Chiesa interviene criticamente sulle leggi italiane emanate o preannunciate da governi e maggioranze di centro-sinistra si scateni la bagarre laicista, con la scontata citazione della formula cavouriana “libera Chiesa in libero Stato”, mentre ogni intervento delle stesse gerarchie che potrebbe venir interpretato come critica di uomini e strategie politiche del centro-destra riceve gli elogi del ‘brain trust’ nazional-progressista. E’ l’inguaribile metastasi del sedicente liberalismo italiano: la libertà non sta nel rispetto delle ‘forme’—i geni tutelari della polis, come le chiamava Benjamin Constant—ma nella possibilità/capacità di fare ‘il bene’. In fondo, è la stessa concezione della Chiesa: sei libero se dici cose giuste, non hai diritto di intrometterti nelle questioni che riguardano la sfera pubblica se sei al servizio di interessi di parte o se sei schiavo del tuo fanatismo ideologico. Trenta e lode a Bertone quando (indirettamente) bacchetta Bossi, messo alla gogna di Bertone quando plaude alla legge 40 (che anche per lo scrivente, beninteso, è una legge illiberale e teo-con).
Forse l’etica liberale, come il coraggio per don Abbondio, è qualcosa che se uno non ce l’ha non se la può dare, ma spero proprio che non sia così anche per quel sano egoismo che mi porta ad essere allergico nei confronti dello ‘stato etico’, inconfessato ’termine fisso d’eterno consiglio’ a destra, a sinistra, al centro.
Tornando al tema dell’articolo di Berselli– il proclama antifiscale di Bossi– non ho nessuna difficoltà a concordare sul principio in base al quale “se le leggi sono ingiuste, come pensa Calderoli sulla base del dogma bossiano, è giusta la ribellione. C’è solo il problema di individuare chi sia, e in base a quali norme, a decidere se le leggi sono giuste o sbagliate”. Mi pare assai ben detto anche se sarebbe auspicabile che ‘Repubblica’ e C. se ne ricordassero quando sindacati, studenti, centri sociali e disobbedienti vari scendono in piazza per chiedere ad amministratori non graditi di andarsene o di revocare leggi e provvedimenti ritenuti iniqui. Ma anche qui, evidentemente, le forme diventano carta straccia quando potrebbero impacciare i movimenti dei paladini del bello, del giusto, del vero.
Sennonché ciò che preoccupa seriamente nella predica dell’intellettuale bolognese non sono queste e altre contraddizioni ma una sorta di razzismo sociale che porta allo scoperto vecchi e logori abiti mentali non ancora messi in soffitta, nonostante la retorica (insopportabile) sulla ‘società aperta’ e sulla (presunta) fine delle ideologie. Per Berselli, “la ventilata insurrezione contro la fiscalità generale è un tipico tema dell’ideologia profonda della Casa delle libertà, di quel nordismo sbrigativo che accomuna il mondo della Lega con l’insediamento politico ed elettorale di Forza Italia”. E fin qui, nulla da eccepire trattandosi di “giudizi di fatto”, della cui verità o falsità decide l’indagine empirica. Lo sconcerto viene dopo allorché il maitre-à-penser, mette mano ai “giudizi di valore” e, una volta individuato “l’insediamento politico ed elettorale di Forza Italia”, pronuncia il suo Delenda Cartago: “Sono settori del commercio%2C della piccola impresa, parte del tessuto imprenditoriale, professionale e in generale del lavoro autonomo, in sostanza quell’universo sociale che rifiuta antropologicamente la sinistra, non vuole saperne di parole come redistribuzione, e considera le tasse semplicemente come un prelievo insopportabile, a cui sottrarsi ogni volta possibile”. Dal piano storico-politico qui si passa, senza ritegno, a quello antropologico: esiste una classe sociale sorda ad ogni valore, irrimediabilmente affetta da darwinistico egoismo di ceto, che non vede null’altro al di là del proprio naso e del proprio particulare. Un’umanità reietta da tenere rigorosamente distinta dai banchieri,dai grandi imprenditori, dai leader sindacali che pagano volentieri le tasse e sanno, con Bertone e Bertinotti, che senza prelievo fiscale è impossibile assicurare il minimo vitale alle classi situate ai piani bassi della piramide sociale.
Se il fascismo, in certe interpretazioni, era la lotta di classe della piccola borghesia contro il proletariato, il bersellismo sembra essere la lotta di classe dei ‘poteri forti’(finanziari, confindustriali e sindacali) contro la piccola borghesia produttiva. E come tutte le ideologie anche questa, tra le sue funzioni precipue, ha quella di affumicare l’arena politica e distrarre la pubblica opinione dai veri problemi. Che sono quelli di una fiscalità esosa e punitiva per i ceti non protetti—in articoli e libri, liberali autentici come Oscar Giannino e Piero Ostellino lo hanno spiegato etiam Turcis—e di sostanziali meccanismi di compensazione per i potentati economici (che non c’è più bisogno di nazionalizzare se si mettono a disposizione dei governi che esprimono la ‘volontà generale’, come quello cinese).
Una società liberale che si rispetti dovrebbe essere grata ai piccoli imprenditori e operatori economici che lottano quotidianamente su un mercato che per loro non è truccato, che spesso si accontentano di guadagni assai inferiori a quelli di un dirigente pubblico o di un portaborse ministeriale che dormono sonni tranquilli non avendo a che fare né con i commercialisti, né coi comitati aziendali, né con le disfunzioni dei servizi pubblici (treni, aerei, poste) che spesso comportano perdite enormi di tempo e di denaro. Da noi, invece, se questa ‘vil razza dannata’, invece di appoggiare il ‘blocco sociale’ di Berselli, esprime la sua protesta votando Bossi o Berlusconi, apriti cielo! I moralisti in servizio permanente effettivo—a partire dall’indignatissimo Walter Veltroni—sono lì pronti a saltarle addosso e a criminalizzarla, sicché oltre al danno di una politica governativa che la penalizza deve anche subire la gogna pubblica. ‘Curnut’ e mazziat’, come si dice a Napoli.