Quando il femminismo alla #MeToo mette in discussione il garantismo
13 Settembre 2019
Nell’epoca social è molto più importante ciò che appare, la forma supera la sostanza e il mondo dell’informazione si adegua di conseguenza.
Per questo le nuove mode ideologiche hanno trovato un terreno fertile e molto ricco: senza contenuti si vive meglio, ciò che conta è gridare allo scandalo e creare indignazione, ma è proprio così che si rovinano vite.
Abbiamo parlato molto spesso di femminismo, i giornali hanno dedicato al movimento #MeToo prime pagine e servizi televisivi di tutto rispetto.
Conosciamo i volti delle femministe 2.0 come se fossero vicine di casa, ma sappiamo bene anche come si chiamano le loro vittime: nomi e cognomi stampati su carta e ripetuti allo sfinimento, sino a rendere ogni singolo uomo un pezzo di carne utile a vedere copie e fare scoop.
Sono pochissimi i giornalisti che si sono posti il problema di appurare la veridicità delle accuse rivolte a più soggetti, sappiamo che questo format è popolarissimo in politica dove accusato corrisponde a condannato, ma da diversi anni a questa parte la piega presa è ancor più grottesca.
Tanto è vero che con la grande bolla Weinsten sono entrate in gioco dinamiche molto più vivaci sino a declinarsi nel movimento neofemminista #MeToo: necessità di rivalsa, far valere la propria carriera, ma soprattutto grande ipocrisia nel denunciare dopo aver favorito un piatto finché conveniva.
Sicché non deve stupire se poi questa svolta giacobina ha reso la vita pubblica di molti accusati un inferno: nessuno sconto.
Se la giustizia ha davvero onore di chiamarsi tale, bisogna che l pena sia anche giusta e soprattutto certa, altrimenti qualsiasi meccanismo accusa-favore è soltanto un sistema messo in atto per tagliare le teste a chi meno sopportiamo.
Con il diktat femminista le cose sono andate così, e ne sanno qualcosa Brizzi, Affleck e Space: tre uomini la cui vita pubblica (e privata) è stata rovinata, sino a portarli ad un’umiliazione per qualcosa di mai certificato.
Il rischio di questa dominanza ideologica è ovviamente quello di raggiungere una svolta illiberale ed autoritaria.
Infatti, giacché se ne dica e nonostante le stesse femministe si dicano appartenenti ad un filone di apparente libertà, conviene ricordarsi che lo stesso mondo designato da Huxley che tanto pullulava di parole sulla libertà, nient’altro era che una trappola ideologica volta a programmare la vita delle persone e tararle con il misurino.
Nel mondo designato dal femminismo 2.0 tutti i fatti rispondono ad una logica perversa e devono, in un modo o nell’altro, rientrare, anche se forzatamente.
La stessa produzione culturale ed accademica oggi si traduce nel ricercare una “prospettiva femminista” anche in quei tanti classici che di femminismo non hanno neanche una riga.
Bérénice Levet, filosofa e saggista francese, sostiene “Il femminismo espropria le donne del loro statuto di “soggetti”, le tratta come vittime innocenti del maschio dominatore, per non dire predatore”.
Attraverso questa logica il pensiero dominante opera permettendo che le false accuse di molestia trovino grandi voci pronte ad accoglierle, sicchè la ruota del #MeToo taglia le sue teste basandosi sulla verificata innocenza della Donna contro la parola dell’Uomo.
Questo perverso sistema non permette che vi sia vera giustizia, soprattutto per le donne che realmente subiscono abusi e vengono lasciate a loro stesse.
Eppure bisogna ricordarsi che l’isteria del femminismo ha rovinato la reputazione a tanti uomini, rei di essere capitati nel giro sbagliato, sicché è bastato un grido, solo uno, per mettere in discussione la dignità di chi, da innocente, è stato macchiato dalla lettera scarlatta.