Quando il gioco si fa duro il popolo di centrodestra deve alzare la voce
30 Ottobre 2009
Il sonno è di quelli profondi. E nonostante le bastonate alla collottola e i ganci sotto la cintura, non c’è verso di svegliare il dormiente centrodestro.
Su altri fronti il Nostro, all’opposto, pare non volersi prendere un attimo di riposo. E’ ipercinetico. Ha fatto e – c’è da scommetterci – continuerà a fare per non sbattere i denti contro il muro delle attese tradite. Tra le più meritevoli, fra le tante, ha varato un pacchetto di norme per la sicurezza di cui taluni ricordano solo i pezzi utili a fare polemica da suburra. E perfino esportabile. Imboccano i corrispondenti dei fogli esteri chiedendo loro di scrivere in vermiglio che l’Italia è preda di invasati governativi che girano per strada, machete tra gli incisivi, a caccia di stranieri da affettare. Che quegli stessi stranieri vengono respinti, e quindi fatti crepare in mare, per “xenofobia” teorizzata e praticata.
Forse che ha qualche fondamento, allora, il travaso di bile del premier che addita le gazzette straniere di sputtanamento sistematico di sé e dell’Italia intera. E ha qualche ragione a inalberarsi non perché sia l’Unto che mai toppa, ma perché i numeri che non temono smentite hanno una faccia troppo diversa dalle ricostruzioni impastate con la demagogia.
Così è se si considera che i respingimenti sono iniziati per normalizzare un apparato di accoglienza in affanno. Così è se si introduce il reato di immigrazione clandestina non per autocompiacimento razzista ma per dare senso ed efficacia al sistema delle espulsioni, prima affidato al cortese invito di lasciare i confini patri.
Così è se le leggi antimafia contenute nel pacchetto sicurezza (l’unico precedente di pari incisività è nel decreto “Scotti-Martelli” del ‘92, ma stavolta si è agito indipendentemente dalle bombe. Non si chiama “volontà politica” di azzoppare i clan?) stringono il cappio attorno al collo della mala.
Le norme che agevolano il sequestro e la confisca dei beni dei mafiosi, che inaspriscono il “carcere duro”, che tengono lontani dagli appalti pubblici gli imprenditori strozzati che hanno “dimenticato” di denunciare gli estorsori, che colpiscono anche l’apparato burocratico (e non solo gli eletti) in caso di scioglimento di un’amministrazione per infiltrazione mafiosa, non sono leggi che a un colluso (come è il Cavaliere per D’Avanzo e compagnia) converrebbe non proporre? O si dirà che sono “coperture costose ma doverose”?
Così è perché dall’insediamento di Berlusconi a oggi sono stati arrestati 270 latitanti, con una media di otto arresti al giorno durante l’anno scorso; sono stati sequestrati alla criminalità organizzata beni per un valore complessivo superiore a cinque miliardi di euro, diecimila miliardi del vecchio conio.
Si sta operando nella direzione sperata dai magistrati che fanno e hanno fatto, dilaniati dal tritolo, l’antimafia concreta, non quella dei teoremi. Si sta prosciugando il brodo di denari in cui prosperano i boss, che considerano l’arresto poco più di un “incidente di percorso” ma si spezzano senza i capitali che, in molti casi, li rendono capitani di impresa esemplari, finissimi.
Maroni e Mantovano sembrano due dischi rotti; li ripetono fino allo sfinimento i numeri plastici del successo, ma anche i più grandi primati, se ridotti a trionfo aritmetico, paiono roba da ragionieri. Dovrebbero essere sostenuti da pezzi e servizi “caldi”, che uniscano la matematica ai principi umanamente bollenti (fatti di determinazione, di messianismo civile) che innervano la lotta contro la barbarie mafiosa.
Si è bussato in patria, per allargare il giro dei soliti Feltri, Belpietro e Ferrara, alle porte di Repubblica e di Padellaro, ma non hanno aperto impegnati com’erano a fare pornodomande e a consolidare la fama di picciotto, “a prescindere”, del premier. Si è citofonato all’estero, ma dei 270 latitanti finiti al gabbio non interessa al club dei fogli progressisti, disponibili a ciarlare di feste e baldracche, ma a corto di inchiostro se bisogna illustrare l’Italia, un Paese che – a dispetto del “tanto peggio tanto meglio” dei travagli e dei dipietri nostrani – la schiena dritta ce l’ha.
Il Nostro, il governo tutto, macina chilometri e su parecchi versanti: dalla sicurezza alle emergenze ambientali, dall’economia alla biopolitica (non volendo ascriversi il titolo di governo omicida, che fa morire di fame e di sete i disabili gravi e fa abortire le donne col pesticida domestico). Su un fronte però dorme. Come un sasso.
Se per raccontare i successi reazionari ci si deve affidare sempre e solo ai tre di cui sopra, forse è ora di finirla con l’autocensura preventiva. Il timore è noto: se già ora a Berlusconi danno del duce caraibico, figurarsi cosa accadrebbe se tirasse fuori il suo Floris, la sua Dandini, il suo allegro deejay azzurro. Risposta facile: cosa c’è da perdere? Una palata di letame in più rispetto alla discarica che gli riversano quotidianamente addosso fa la differenza? Non scherziamo. E non si dica che in passato si è tentato di farlo, perché qui si parla di tirare fuori decine di gladiatori con gli attributi, che dettino il dibattito e suscitino – per l’annozero cavalleresco – le stesse aspettative del circo di Santoro.
Basta col complesso di inferiorità perenne, con le gambe che tremano davanti alle scempiaggini sulla libertà di stampa schiacciata. Fanno sanguinare le orecchie con il premier che controllerebbe – coi soldi e col potere – tutto il sistema dei media che contano. Che lo dicano a ragione, allora, visto che finora si è pagato dazio per portare a casa solo briciole e contumelie.
Cacci dalla naftalina i suoi Santoro, Berlusconi; moltiplichi i giornali, gli avamposti della Rete per dare voce e scrivania ai tantissimi ragazzi di talento allergici al sinistrismo; apra le scuole dei cabarettisti, degli attori non allineati; lanci le radio (che siano megafono di tutta la cultura non conformista) sul modello delle antenne che danno linfa al movimento conservatore americano e fanno impazzire i liberal obamiani. E non si dica che non ci sono, sarebbe imperdonabile.
Li tiri fuori, dia loro visibilità. A meno che non ci si voglia suicidare continuando a vincere alle urne e a lasciare nel silenzio quella maggioranza che, stanca di essere additata come antropologicamente inferiore (tra i tanti, il pezzo di Pirani su Repubblica del 28 ottobre docet), ora vuole urlare.