Quando il giornalismo in Italia lo faceva Moravia

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Quando il giornalismo in Italia lo faceva Moravia

25 Novembre 2007

Il
28 novembre l’Italia celebra il centenario della nascita di Alberto Moravia:  sono molte le iniziative per ricordare uno degli autori maggiormente significativi – e prolifici – della letteratura italiana novecentesca. Solo sul
fronte editoriale, Bompiani ha appena pubblicato un romanzo inedito (“Due
amici”, scritto negli anni cinquanta e rinvenuto nel 1995, in una valigia
appartenuta all’autore) e una riedizione del suo romanzo d’esordio, “Gli
Indifferenti” (pubblicato nel 1929, eccezionale capostipite del realismo
letterario anni trenta), con tanto di audiolibro in sei cd. Non
bisogna dimenticare però che Alberto Moravia è stato anche un grandissimo
reporter.

La letteratura italiana vanta molti casi di scrittori prestati al
giornalismo: si pensi solo a Edmondo De Amicis e al successo dei suoi
reportages, pubblicati da Treves. Moravia è un grande di questo filone, fedele
collaboratore del “Corriere del Sera” per gran parte della sua vita:
parlare di lui e della sua attività culturale significa allora leggere un
attento testimone del Novecento. La
storia del reportage italiano si potrebbe suddividere in tre fasi. In origine
ci sono i grandi reporter, inviati in giro per il mondo dai maggiori quotidiani
italiani: si pensi a Barzini, Vergani, Fraccaroli e Tomaselli. La seconda fase
del reportage vede invece il reporter affiancato da uno scrittore: l’idea è
quella di giungere a corrispondenze maggiormente letterarie, con note di colore
(garantite dalla presenza del letterato) a coronamento del resoconto dei fatti
(dei quali si occupa il giornalista). La terza ed ultima fase, infine, si
sviluppa quando tutto il mondo è stato esplorato e raccontato: a partire è
allora il solo scrittore, che valorizza l’aspetto letterario del viaggio.
Protagonisti della terza fase sono celebri autori del calibro di Anna Maria
Ortese (che raccontò l’Unione Sovietica per “L’Europeo”), Alberto
Arbasino (celebre, ad esempio, il viaggio di formazione in Grecia raccontato in
“Dall’Ellade a Bisanzio),  Pier
Paolo Pasolini (del quale è stato recentemente pubblicato lo splendido
reportage dai litorali italiani, “La lunga strada di sabbia”) e,
appunto, il nostro Alberto Moravia.

Per
farsi un’idea degli interessi e dei luoghi toccati dallo scrittore romano,
basta dare un’occhiata al catalogo Bompiani. C’è prima di tutto molta Africa,
grande amore dell’autore: “A quale tribù appartieni?”, una serie di
corrispondenze pubblicate dal “Corriere” tra il 1963 e il 1972 in cui
lo scrittore descrive l’Africa post-coloniale, “Lettere dal Sahara”,
che raccoglie le corrispondenze scritte tra il 1975 e il 1981 (dopo il viaggio,
ebbe a dire che l’odore del continente nero “non si dimentica mai”),
e “Passeggiate Africane”. Poi c’è l’Unione Sovietica: “Un mese
in URSS”, diario di un viaggio compiuto nel 1958, e “L’inverno
nucleare”, che raccoglie articoli e interviste del periodo 1982-1985
(Moravia parla, tra gli altri, con Ernst Junger, il professor Kato, il
reverendo Shimizu e il bonzo Morimoto) per giungere ad un’articolata
riflessione sul rischio di un suicidio nucleare collettivo. Non manca infine la
politica: in “Diario europeo”, il giornalista Moravia racconta un
anno (il 1984) da parlamentare europeo.

Molte
sono le riviste che sono fregiate della sua penna: il “Corriere della
Sera”, certo, ma anche “Oggi” di Pannunzio, la “Gazzetta
del Popolo”, “Caratteri”, “Omnibus” di Longanesi,
“Pospettive” di Malaparte, il “Popolo di Roma” di Alvaro,
“L’Espresso” (per il quale fa il critico cinematografico) e
“Nuovi Argomenti”, da lui stesso fondata insieme a Carocci.
Un’intensa attività giornalistica che ben presto si scontrò con il fascismo e
le leggi razziali: dai primi anni ’40 – mentre i suoi libri sono già censurati
dalla “Commissione per la bonifica libraria” in quanto “autore
ebreo” –, Moravia si trova costretto a scrivere sotto pseudonimi: Pseudo,
Tobia Merlo, Lorenzo Diodati e Giovanni Trasone.

Fatta
eccezione per il periodo della fuga dai nazisti negli ultimi anni della seconda
guerra mondiale, moltissimi sono stati i suoi viaggi: Gran Bretagna, Messico e
Stati Uniti, Cina, Grecia, Brasile, Iran, Giappone e ancora tanta Africa e
tanta Russia (ai tempi, Unione Sovietica). Tutti questi viaggi Moravia li ha
raccontati in pagine bellissime. E tra tutte le sue avventure, una in
particolare merita di essere raccontata: il viaggio in India in compagnia di
Pier Paolo Pasolini.

L’India,
per l’Occidente, è un luogo mitico e fiabesco: da quando Quinto Curzio Rufo,
nel I secolo d.C., parlò delle affascinanti bellezze orientali e delle
inestimabili ricchezze dei sultani, quel mondo non ha mai smesso di affascinare
gli occidentali. In molti ne parleranno: tra gli altri Marco Polo – per il
quale il valore delle perle di un marajà superava quello di una città –,
Cristoforo Colombo – che partirà alla ricerca di quelle ricchezze, salvo poi
finire in America –, Kipling – forse il maggior responsabile dell’idea
dell’India che hanno gli europei – e via fino a Salgari.

Nel
1961, tempo prima che i Beatles ci vadano a meditare, il “Corriere delle
Sera” manda Moravia in India per una serie di reportage: dal 19 febbraio
al 30 luglio lo scrittore sforna undici pezzi, poi lievemente ritoccati per la
pubblicazione in volume del 1962 (“Un’idea dell’India”, Bompiani). E
nello stesso periodo un giornale al tempo molto in voga, “Il Giorno”,
manda in India – a fare compagnia, e concorrenza, a Moravia – un altro grande
scrittore: Pier Paolo Pasolini, che raccoglierà le sue impressioni in sei
“puntate” anch’esse pubblicate in volume (“L’odore
dell’India”, Longanesi).

Lo
spunto per il viaggio dei due intellettuali è un convegno organizzato per il
centenario della nascita del poeta Tagore. La partenza è fissata per il 31
dicembre 1960: il primo gennaio 1962 i due scrittori sono a Bombay, dove
alloggiano al celebre Taj Mahal. Tra una sessione del convegno e l’altra, c’è
tempo per un’escursione aerea ad Aurangabad: qui Moravia inizia la sua
corrispondenza per il giornale. Poi, il 10 gennaio, eccolo a Nuova Delhi dove
incontra Nehru, primo ministro indiano ed erede spirituale di Gandhi.

Nehru
%0Acolpisce molto Moravia: “La fronte è alta, serena, armoniosa; gli occhi,
molto scuri, hanno uno sguardo inquieto, acuto, ambiguo; la bocca ha
un’espressione al tempo stesso benevola, annoiata e dura”. Ma, messa a
parte l’emozione, lo scrittore veste i pani del reporter intervistatore per
verificare se nel politico indiano fossero presenti “i tre caratteri che
gli attribuiscono”: “La vanità dell’uomo che sa di essere attraente e
pieno di fascino; la facilità all’impazienza e alla collera del demiurgo
liberale (…); l’inclinazione alla noia dell’uomo pubblico”. Nerhu è così?
Solo in parte: quello che nota il giornalista Moravia è prima tutto un grande
magnetismo, proprio solo dei grandi leader.

Ma
prima dell’incontro con Nehru, Moravia ha parlato dei roghi di Benares. Le pire
funerarie della città sacra – che tanta liricità destano nel resoconto di
Pasolini – sono per Moravia lo spunto per parlare della concezione della vita
nella società indiana, che “rappresenta per l’europeo al tempo stesso un
paradosso e una tentazione, nel senso che essa è non soltanto il contrario
della sua ma anche la sola alla quale in un momento di stanchezza e di disgusto
egli possa ricorrere con qualche utilità”. Moravia, da giornalista, non si
lascia emozionare troppo dai corpi che bruciano e riesce a descriverli con
grande professionalità: “Le fiamme divampano in un’oscurità completa; alla
loro luce rossa e mobile si intravede, intorno al rogo, un cerchio di persone
accoccolate sui calcagni, immobili, non tanto raccolte o meditabonde quanto
indifferenti”. E non c’è troppo da essere tristi, se è vero che “in
quel rogo, secondo una nota sentenza, non si consuma una persona unica e
irripetibile bensì un vestito logoro, che non serviva più, una pelle vecchia
abbandonata per una nuova”.

Per
tutte le dodici sezioni che compongono il reportage, Moravia segue sempre la
stessa linea: parte dall’esperienza diretta, per fornire una guida
turistico-intellettuale al lettore interessato alla regione indiana. Riflette
sul politeismo – materializzato in templi magnifici –, sulla povertà – le cui
cause, secondo l’autore, sono il sistema delle caste, la superstizione, la
dominazione inglese e la situazione geofisica – piuttosto che sul concetto
d’impurità. Ma dietro alle idee, la fisicità del lungo viaggio indiano si
riesce sempre a toccare con mano.

“Un’idea
dell’India” è solo una delle tante prove giornalistiche di Moravia. Ma è
anche emblematica nel ricordare a tutti noi come i più grandi reportages della
storia siano sempre emersi dall’unione di due fattori fondamentali: il rigore
giornalistico e la genialità dello scrittore. Così era per Moravia, così per
Hemingway e avanti fino alla Fallaci. Ricordare Moravia oggi, a cento anni
dalla nascita, è ricordare anche una stagione magnifica: quando il giornalismo,
non ancora soffocato dalla televisione, sapeva ergersi al rango della
letteratura lasciando un segno nella storia.