Quando mia madre decise di farsi guida e istruzioni per l’uso
05 Luglio 2009
Erano passati almeno due anni di forte distanza tra noi due. Io avevo deciso così. Silenziosa e compiacente. Le sorridevo. Patetica, le sorridevo con le labbra slargate, gli occhi allungati semichiusi. Sì. Sì, lei accendeva una sigaretta? Io sorridevo. Lei decideva di bere il diciottesimo caffè? Sorridevo ancora. Accettava di seguire ancora una volta mio padre nella sua caccia alle adolescenti? La aiutavo ad infilare l’impermeabile, mentre mi giurava che quella sarebbe stata davvero l’ultima volta.
Non mi raccomandavo che tornasse presto. Né che evitasse di ridursi male con l’alcool o che la smettesse di fasciarsi nella seta blu che non andava più d’accordo con le sue carni molli e abbondanti. Ma una sera, vedendola rientrare, mentre tentavo di stamparmi sulla faccia un sorriso, mi accorsi per la prima volta che non era più bella. Era smunta, malandata, quasi gialla. Un’escrescenza, ecco cos’era. Un’escrescenza gialla sulla soglia di casa e nella vita di mio padre. Ma non era solo questo lucore a farmela guardare come per la prima volta sotto un neon. Ansimava, la sua faccia chiedeva aiuto, la bocca un po’ in avanti, indurita. Non parlava. Schiumava invece, sul lato. Non avevo troppa voglia di capire. “Mamma?”. Una tachicardia senza controllo, tutto rimbombava in quel corpo, persino le narici erano intasate da questo battito colico e senza punto d’arrivo.
Continuavo a chiamarla, ma non riuscivo ad avvicinarmi troppo. Quel corpo, sempre un po’ malconcio e livido mi faceva impressione. E poi il suo odore provocava un ributto nel mio stomaco e nel mio cervello, sigarette, alcool e sudore di giorni. La pelle ormai era tutta grassa, a tratti macchiata, come un vecchio tavolo nella sala da pranzo. Era chiaro il fatto che non scopasse da anni con mio padre. Era chiaro, evidente direi, e quasi logico il motivo per il quale lui la rifiutasse. Probabilmente subito dopo averla ingravidata aveva iniziato a rifiutarla. Come un territorio di conquista che nessuno tenta più di espugnare. Come un cane che riempie dei suoi escrementi gli angoli delle strade e per quegli stessi angoli perde qualunque interesse, tanto da poterci camminare vicino senza restituire ad una sola di quelle strade né sguardo né memoria. E subito dopo la gravidanza aveva iniziato a schifarsi anche lei di sé stessa. Che aveva fatto mai? Accoppiarsi e figliare. Accoppiarsi e figliare. E per di più figliare femmine. Lei che già da femmine veniva, gettarne nuovamente altre sulla terra, gettarne altre destinate ad essere nuovamente ingravidate con altre femmine.
Un’epopea ferina, questo mi aveva insegnato lei delle donne. Come, tenendosi salde ad un angolo della sedia, con le gambe tese, una più in alto dell’altra, bloccare il sangue che viene dalle pancia. Come invidiare in silenzio le donne più snelle, più alte, più forti, e demolirle con l’astuzia. Come farsi forte davanti agli uomini, ai mariti, ai padri e ai figli maschi prescindendo dal dolore e dal pianto. E poi ad urlare. Mi aveva insegnato a urlare, a sbraitare, a demolire, ma non in modo dozzinale, come invece farebbe un uomo, bensì scegliendo accuratamente il cosa e il come, per aizzare la controparte nei modi più violenti e sragionati e poi dolersene.
Continuavo a guardarla mentre strabuzzava gli occhi, non mi sembrava chiedesse aiuto. Non poteva farlo. Un infarto le stava pervadendo ogni più piccola piega. Non lo avrebbe fatto ugualmente: “le donne tra loro non chiedono mai aiuto, soprattutto alle femmine della loro famiglia. E’ una dichiarazione di debolezza che non fa bene”. Mi sembrava che lo stesse recitando in quell’istante, quel mantra, anche se la sua bocca era ferma in una stortura che la teneva larga come se vi dovesse uscire un intero campionario di intuizioni e bestemmie.
Aveva deciso di tenersi dentro il sangue più volte nella sua vita. Aveva già lasciato andare via mio padre. Aveva già lasciato scivolare via me. Il sangue era l’unica cosa che le apparteneva e che le sarebbe appartenuta fino alla fine. E quella era la fine di chi non tira fuori mai tutto per intero. Aveva scelto da sé, restare sorgente. Restare radice attracco e farsi insegna. Farsi guida e istruzioni per l’uso. Si era ripiegata come un lenzuolo in una madia, per poi consegnarsi in tutti i suoi ricami e le sue macchie di umido a chiunque ne avesse voluto usufruire. A chiunque l’avesse sgualcita, a chiunque fosse stato capace di scavare, di estrarre, di guarirla o di ammalarla di più. E poi a me, e a sua madre. E poi a me, e a mia figlia. Matrilineare.
Margherita Macrì è nata a Castrignano dei Greci (Lecce) nel 1984. Ha pubblicato i suoi scritti su blog e riviste on line. Uno dei suoi racconti brevi è apparso nell’antologia Spazzanapoli (Leconte 2008). E’ tra le finaliste alla "Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo" che si terrà a Skopje dal 3 al 12 settembre 2009.