Quando scoprimmo che gli androidi sognavano pecore elettriche
29 Gennaio 2012
Dimenticate il film di Ridley Scott, il colossal a nome Blade Runner, che nel lontano 1982 sbancò i botteghini con la sua trasposizione molto estetica e poco semantica del celebre romanzo dickiano. Partite dal titolo originale dell’opera, Ma gli androidi sognano pecore elettriche? Sintonizzatevi sul soggetto e il verbo: “androidi”, “sognano”. Ora, prima di provare a rispondere alla domanda del titolo, sono necessarie delle premesse: immaginate l’esistenza di tecnologie talmente progredite da permettere la creazione di esseri artificiali di circuiti e transistor, esteticamente identici agli esseri umani. Costrutti elettromeccanici, androidi, dotati di programmi e algoritmi che simulano le capacità cognitive del nostro cervello. Esseri più forti ed intelligenti – se si considera l’intelligenza come una caratteristica misurabile in base alla velocità e alla capienza dei pensieri sviluppati – dei loro creatori.
Magari anche schiavi, ex “Combattenti della libertà” che al termine del conflitto nucleare – che ha regalato ai terrestri una coltre di nubi perenne che ha letteralmente soffocato la luce del sole – sono stati riconvertiti in maggiordomi galattici da destinare alle famiglie che emigrano su Marte, solo dopo aver passato con successo un test varato dall’ONU.
Ma non basta, la risposta al quesito del titolo non può prescindere da un paragone fra il golem postmoderno e l’umanità sua genitrice. Che individui sono gli esseri umani del romanzo? Creature costrette a vivere in un mondo perennemente offuscato, che indossano scafandri per proteggersi dalle piogge radioattive che appestano l’atmosfera. Esseri che ricorrono alla tecnologia del “modulatore d’umore” per provare dei sentimenti – celebre in questo senso la scena di apertura del romanzo, con il protagonista, il detective Deckard, che litiga con la moglie sul codice da digitare sull’apparecchio e sul relativo status emotivo -, incapaci di rapporti spontanei o naturali.
Naturale, una parola che seppur assente nella storia si agita ossessivamente fra le pieghe del subconscio del lettore, quasi come se la preponderanza del suo opposto, l’artefatto, spingesse compulsivamente verso la propria negazione. La vita in Ma gli androidi sognano pecore elettriche? Non ha una fisionomia ben definita. Se la tecnologia non solo emula l’aspetto fisico dell’uomo ma riproduce anche le sensazioni, in che cosa consiste la natura? Come possiamo definire l’essere umano? Prima proviamo a risolvere questo quesito, poi, forse, sarà possibile rispondere alla domanda principale.
Secondo Dick un discriminante ontologico fra la vita biologica e quella contraffatta esiste, ed è l’empatia. La capacità di provare dei sentimenti verso i proprio simili e la vita in generale. Una caratteristica misurabile attraverso un test, il Voigt-Kampf – consiste nel porre delle domande al soggetto esaminato, di cui si valuta la reazione oculare – che sembra essere l’unico strumento di cui il detective Deckard può munirsi per svolgere la sua missione: individuare i sei androidi ribelli, dei modelli Nexus 6, che sono ritornati sulla Terra per motivi ignoti. Ma il Voigt-Kampf ha dei limiti: scambia gli schizofrenici per androidi, poiché i malati di mente non sarebbero in grado di sviluppare l’emotività necessaria a definirsi umani.
Ecco, allora, subentrare una possibile soluzione: “la scatola empatica”, un oggetto quadrato dotato di maniglie, stringendo le quali le menti degli utilizzatori si fondono nella psiche di Wilbur Mercer, il Sisifo dickiano costretto a compiere continuamente lo stesso percorso che lo conduce alla sommità di una collina, per poi essere preso a sassate da esseri invisibili. Mercer è il fondatore del mercerianesimo la religione basata sulla sofferenza, le ferite provate durante questa primordiale simulazione sono reali, esperienza che sembra accessibile ai soli esseri umani, gli unici a saper utilizzare la scatola empatica. Eppure questo non basta: nel finale del romanzo un presentatore televisivo sconfessa Mercer, egli sarebbe solo un attore che recita in un set, come fanno notare le riprese delle esperienze dispensate dalla scatola, da cui emergerebbe chiaramente come la Luna sia finta. Ma non solo, il presentatore mostra un’intervista in cui Mercer stesso afferma di aver solo recitato, essendo stato assunto da un committente a lui ignoto.
Venuta meno anche la prova della scatola empatica come è possibile avere la conferma certa dell’esistenza di un discriminante ontologico che non sia basato sulla sostanza di cui si è fatti? La risposta è semplice: abbandonare la nozione classica di essere umano, cioè quella legata alla biologia e abbracciare una prospettiva del tutto nuova, postmoderna, secondo cui umano è colui-che-si-comporta-in-un-determinato-modo e non colui-che-è-costituito-da-una-determinata-sostanza.
Ciò equivale a dire che il discriminante ontologico dickiano è rappresentato dal macchinico, ovvero dalla tendenza ad esistere solo per se stessi, rinchiusi in quell’egoismo asociale che trasforma l’individualismo in una prigione di solitudine ed intolleranza. Contraffatto è chi nega la vita nella sua componente comunitaria ed emotiva.
E l’androide? Uno schiavo che ha un ciclo vitale di quattro anni, ingannato dai suoi creatori con ricordi innestati che si riferiscono ad una infanzia che non ha mai vissuto, che si chiede cosa voglia dire avere dei figli, può essere definito “umano” secondo l’accezione dickiana? La fusione uomo-macchina non è solo concettuale ma anche fattuale. Nel romanzo Deckard va a letto con l’androide Rachel Rosen, uno dei replicanti fuggiti da Marte. Dimenticate Scott ed il suo romanticismo e rispolverate Mcluhan, andate alla voce “Narciso come narcosi”. Deckard è Narciso infatuatosi della sua estensione mediatica.
L’androide è un elettrodomestico incredibilmente evoluto – volendo mantenere l’analogia mcluhaniana del media come estensione dell’organo umano si potrebbe considerare il costrutto artificiale un’estensione dell’essere umano stesso, potenziandone e sostituendone le sue funzioni in tutto e per tutto, se la ruota sta al piede allora l’androide sta alla totalità biologica che chiamiamo “uomo”- verso cui il detective prova una irresistibile attrazione, la quale non fa altro che denotare un ritorno al proprio ego. La fusione fra Deckard e Rachel si ridefinisce in relazione al periodo storico da cui si parte per analizzarla. Se nell’anno di pubblicazione del romanzo, il 1969, la scena d’amore poteva rappresentare la sublimazione di un incubo luddista che vede l’essere umano reificato in quanto sessualmente sedotto da un prodotto industriale – quale di fatto è l’androide – oggi l’evento ha un significato del tutto nuovo. Nei quaranta anni trascorsi c’è stato di mezzo il cyberpunk, quel movimento letterario – e dunque pop – che ha sviluppato una nuova “sensibilità tecnologica”, alla luce della quale fare l’amore con una macchina rappresenta una esperienza di arricchimento del sé, una tendenza ad inglobare ciò che è diverso potenziando la propria gamma sensibile.
Ma gli androidi sognano pecore elettriche? Forse sì, Rachel Rosen è conscia del suo status e si autodefinisce una formica in quanto parto di una catena di montaggio, che la rende del tutto identica a tutti gli altri modelli che hanno le sue caratteristiche. Eppure una creatura artificiale, che pensa secondo programmi prefissati, tenta di rompere il circolo vizioso che la imprigiona di “sfondare dall’altra parte”, verso il regno della natura; Rachel “sogna” di avere dei figli. Mentre, paradossalmente, l’umanità vive asfissiata dagli scarti del sistema che essa stessa ha creato. Il mondo raccontato da Dick – e da questo punto di vista il film riesce ad essere fedele al libro – soffoca sotto il peso degli scarti della produzione, la “kipple” – tradotta in italiano in “palta”-, la massa informe di rifiuti che inesorabile avanza, scacciando la vita.
In questo mondo-spazzatura apocalittico dove gli esseri umani vivono come automi alienati – talmente assuefatti alla contraffazione da acquistare animali veri sono per sfoggiarli come status symbol – le creature sintetiche sembrano essere le uniche – forse proprio perché prive del dono della vita naturale – interessate a comprendere cosa voglia dire vivere. E così, il capolavoro della tecnica partorito da una catena di montaggio diventa il depositario dell’essenza del suo opposto, il creatore biologico. Ma gli androidi sognano pecore elettriche? Ora potete rispondere alla domanda.