Quando si parla di Siria non si tratta solo di promozione della libertà
12 Febbraio 2012
I regimi imperialisti rischiano di crollare quando perdono i loro avamposti principali all’estero. La caduta del muro di Berlino non portò solo la libertà dal controllo di Mosca per l’Est Europa. Fu l’alba del collasso della stessa Unione Sovietica, che avvenne solo due anni dopo.
La caduta di Bashar al-Assad in Siria potrebbe essere allo stesso modo un cattivo presagio per le sorti dell’Iran. L’alleanza con la Siria è l’architrave della strategia espansionistica dell’Iran, un Comintern in miniatura che include nei suoi ranghi la classe dominante del Libano, con Hezbollah armata e guidata dagli iraniani; e Hamas, che controlla Gaza e minaccia di strappare dalle mani delle poco capace Fatah il resto della Palestina (parliamo dell’area conosciuta come West Bank).
L’Iran si impone con una crescente pressione sull’Afghanistan verso Est e sull’Iraq verso Ovest. Teheran ha addirittura allargato le sue mire al Sudamerica, come ci ha ricordato il viaggio di solidarietà del presidente Mahmoud Ahmadinejad in Venezuela, Ecuador, Nicaragua e Cuba.
Tra tutti questi, la Siria è l’alleato più importante. E’ il solo Stato arabo alleato apertamente con il non arabo Iran. Questo assume particolare importanza in quanto gli arabi vedono i persiani come desiderosi da centinaia di anni di dominare l’intero Medio Oriente.
A questo proposito, le armi e l’addestramento iraniano, ricevuti da Hezbollah attraverso la Siria, hanno consegnato ai ersiani il loro primo avamposto sul Mediterraneo da 2300 anni a questa parte. Ma le differenze tra arabi ed iraniani non sono solo a livello etnico/nazionale. Sono estremità opposte. Gli arabi sono in maggioranza sunniti. L’Iran ha una popolazione prevalentemente sciita.
Lo Stato arabo teme l’infiltrazione nella propria patria degli sciiti iraniani attraverso (a parte l’Iraq), Hezbollah in Libano, e attraverso la Siria, governata dagli Alawi di Assad, una ramificazione ortodossa dell’islam sciita. Cosa che spiega per quale motivo il destino del regime di Assad è determinante dal punto di vista geopolitico. E’ altamente rilevante anche dal punto di vista della nascita della democrazia e la tutela dei diritti umani.
Il baathismo siriano, anche se non volitivo e squilibrato come nel pensiero di Saddam Hussein, attuò uno spietato regime di polizia che uccise 20.000 persone durante la rivolta ad Hama, e che negli ultimi tumulti ha già causato più di 5.400 morti. La salvaguardia dei diritti umani – o della decenza – sarebbe già una ragione valida per fare tutto il possibile per destituire il regime di Assad. Ma l’urgenza deve sottostare alle ragioni strategiche.
L’Iran, con il suo arcipelago di alleati legato alla Siria, è la minaccia più grande della regione – per l’Arabia Saudita e gli Stati del Golfo i quali sono terrorizzati dalla possibilità dell’egemonia nucleare iraniana; i regimi tradizionalisti che rischiano il rovesciamento per mano dei jihadisti iraniani; per Israele, che la Repubblica Islamica ha giurato di distruggere; per l’America e l’Occidente, a causa della promessa dei mullah di cancellare la loro presenza nella regione.
Non è sorprendente che la Lega Araba, i cui membri non sono propriamente riconosciuti come sostenitori accaniti dei diritti umanitari, stia facendo evidenti pressioni per destituire Assad. La sua caduta priverebbe l’Iran di una roccaforte in piena zona Araba, chiudendo ogni sbocco sul Mediterraneo. La Siria tornerebbe alle tradizioni sunnite. Hebzollah, il braccio armato di Teheran in Libano, sarebbe il prossimo obiettivo, appesa a un filo senza il supporto della Siria e l’armamento iraniano. E Hamas tornerebbe sotto il controllo egiziano.
Se lo scenario evolvesse in questo modo, l’Iran, privato dei suoi alleati chiave e con l’economia indebolita dalle sanzioni per il proprio programma nucleare, sarebbe gettato in ginocchio. I mullah sono già scossi abbastanza da minacciare in maniera quasi suicida il blocco dello Stretto di Hormuz. La popolazione è ancora furiosa per la repressione subita durante la Rivoluzione Verde del 2009. In particolare i giovani sono i principali oppositori del regime. Ed i ripetuti tentativi di consolidare il potere di Assad economicamente e militarmente hanno unificato le popolazioni infiammate da un sentimento anti-iraniano.
Non è più solo una lotta degli Arabi sunniti contro Assad. La Turchia, dopo un tentativo fallito di unificare le proprie forze con Siria e Iran, si è posta decisamente contro Assad, con l’obiettivo di estendere la sua area di influenza proponendosi alla stregua di protettrice e guida degli Arabi sunniti, come durante l’impero ottomano. L’allineamento degli schieramenti mostra all’Occidente un’occasione unica per terminare definitivamente il proprio operato.
Come? Dapprima con il boicottaggio su tutti i fronti contro la Siria, oltre a quello del petrolio e dell’embargo totale. In secondo luogo, un supporto largo ai ribelli (attraverso la Turchia, i cui porti ospitano sia le truppe ribelli che gli oppositori politici, o direttamente e clandestinamente in Siria). Infine, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che richieda la destituzione del regime di Assad. La Russia, l’ultimo grande alleato estero, potrebbe essere costretta ad accettare o subire la minaccia degli Stati arabi con un veto.
Risolvere il problema. Tracciare linee chiare. Rendere chiara la condivisione americana del pensiero della Lega Araba contro l’egemonia dell’Iran e del suo traballante alleato, la Siria. In diplomazia è spesso necessario scegliere tra il garantire i diritti umani e godere di vantaggi strategici. Questo è uno dei rari casi in cui possiamo muoverci in ambedue le direzioni – a patto di non cercare un compromesso con la Russia o di cedere prima della caduta di Assad.
Tratto dal Washington Post
Traduzione di Matteo Lapenna