Quando si spengono le luci resta il rock solitario di Johnny Thunders
05 Aprile 2010
La vera perfezione, nel rock’n’roll, è aver titillato il sogno di Gloria senza essere riusciti ad acchiapparlo. Su e giù, giù e su per il mondo con la speranza che la prossima volta sia quella buona. E ogni volta, invece, dover ricominciare, ripartire. Con la consapevolezza che gli anni passano. E pesano, come macigni. Soprattutto dopo un milione di bicchieri. Soprattutto quando la droga è fuori controllo. Soprattutto quando il pubblico e i discografici si ostinano a non capire. Eppure, si sa, lo show deve continuare. E allora non rimane che salire ancora sul palco, accendere gli amplificatori e darci dentro. Andare avanti, nient’altro. In una corsa matta e disperatissima che ormai è solo tua, perche sei rimasto solo, il solo che ancora ci crede.
Insomma, So Alone, come il titolo del disco che Johnny Thunders diede alle stampe nel 1978, dopo che anche gli Heartbreakers erano giunti al capolinea, abbandonati da Sua Bizzosità Richard “Hell” Meyers. Da una parte e dall’altra dell’oceano Atlantico il punk sta facendo furore. Schegge impazzite di nome Ramones, Damned, Sex Pistols e Clash guidano una nuova ondata musicale che sta riducendo a pezzi il rock tradizionale. Sono duri, sporchi e oltraggiosi e, parafrasando Johnny Rotten, “non sanno cosa vogliono, ma sanno come ottenerlo”.
Chi, invece, sa perfettamente cosa vuole è il mastro burattinaio par excellence del business a sette note, quel piccolo infingardo di Malcom McLaren che mette a profitto caos e rivoluzione rimpinguando a getto continuo le sue casse. E pensare che soltanto qualche anno prima era un timido inglesino giunto nella Grande Mela con il sogno di diventare la guida della next big sensation del rock americano. Sì, perché nel 1973 i New York Dolls sono davvero in rampa di lancio. Poco importa che appena qualche mese prima un contratto da 100,000 sterline sia sfumato all’ultimo istante. E poco importa, purtroppo, che una delle Bambole se ne sia andata per un mix di alcol e roba durante il primo, epico tour in terra d’Albione. Povero Billy, poco più che ventenne! Eppure, si è detto, lo show deve andare avanti. Dietro la batteria va Jerrry Nolan e si torna in pista.
L’album d’esordio delle New York Dolls, l’omonimo, è una bomba. Dentro ci trovi di tutto: i Velvet Underground più decadenti, il suono corrosivo degli Stooges e il glam più spaccone di Marc Bolan e dei suoi T-Rex. Il tutto accompagnato da un’attitudine che è quanto di più cool si possa immaginare dai tempi dei primi Stones. Se l’istrionismo del cantante David Johansen a volte può far sorridere, la stessa cosa non si può certo dire del riffing aspro e incalzante di Johnny Thunders. Bastano un paio di ascolti di Personality Crisis o di Jet Boy i per rendersi conto che, dopo Wayne Kramer, nella terra di Colombo sta per esplodere un nuovo fenomeno della sei corde. Certo, non sarà un campione di pulizia o di accordatura, a sentirlo, ma suona comunque da Dio. È veloce, selvaggio. E poi, quando lo vedi sul palco con quel suo look folle e allucinato guidare l’assalto sonoro delle Bambole, ti dici: “Beh, è soltanto questione di tempo. Ce la farà per forza a sfondare”. E invece i mesi passano e il successo non arriva. Neanche quando McLaren suggerisce di sostituire zeppe e paillettes con abiti di pelle e falci e martelli.
Così va a finire che, mentre lui se ne torna oltremanica a fomentare quattro teppistelli che gravitano attorno alla boutique di sua moglie (Vivienne Westwood), un triste sipario cala sulle sorti del gruppo che avrebbe dovuto conquistare l’America e il mondo. Il tempo di rifarsi, però, ci sarebbe. Johnny Thunders chiama a sé Jerry Nolan (Don Chisciotte e Sancho Panza quasi), tira dentro Richard “Hell” Meyers e gli Heartbreakers son cosa fatta. Quando anche Walter Lure è della partita, una nuova macchina da guerra sembra essere pronta per l’attacco decisivo. E i tempi, ormai, sono maturi. Tutti, da una parte all’altra dell’oceano, scimmiottano (alcuni con enorme successo) la musica e il look di Thunders (vero Steve Jones? Vero Joe Strummer?). Basti pensare che dal suo passaggio in Inghilterra di qualche anno prima, ogni piccolo bastardo con la fissa dell’oltraggio sonoro e comportamentale mette su il chiodo di pelle nera e si sfascia di eroina. Il punk è appena nato, ma il buon Johnny è già una leggenda.
Dopo un anno di gig infuocate, la nuova formazione entra in studio. Ne viene fuori un disco, L.A.M.F (Like A Mother Fucker), che ha tutti i paradigmi di un album epocale. Rock’n’roll al fulmicotone, ritornelli che sembrano fatti apposta per rimanere nella mente e soprattutto un singolo, Born to Lose, che tanto a livello musicale quanto testuale, sembra essere l’anthem perfetto della nuova generazione, insieme a Anarchy in the U.K. o a White Riot. E invece va di merda, ancora una volta. I fonici in studio fanno un lavoro di consolle agghiacciante che penalizza in modo irrimediabilmente la resa sonora del 33 giri. E poi, come detto, Meyers fa fagotto, direzione Voivods. Insomma, anche gli Spezzacuori si sono spezzati e per Johnny Thunders è un’altra mazzata. Stavolta è rimasto solo, per davvero. Il loner più talentuoso del rock’n’roll.
So Alone, rispetto alla produzione precedente, suona più cupo e dimesso. Certo, non mancano le scorribande chitarristiche che lo hanno reso famoso, ma il tono è più bluesy, sicuramente meno festaiolo. Anche dal punto di vista lirico sembra palesarsi una virata piuttosto netta rispetto agli esordi: affiorano la stanchezza, la sfiducia, quasi la consapevolezza che la grande occasione sia definitivamente passata. E poi è già tempo di leccarsi le ferite, abbandonarsi alle lacrime e contare i buchi nel cuore. Nonostante questo, però, il disco è davvero strepitoso, disseminato di canzoni che dovrebbero diventare dei classici istantanei (You Can’t Put Your Arms Around A Memory, Leave Me Alone, Great Big Kiss). Facile indovinare come vada a finire.
A questo punto il successo non è neanche più una chimera. Le porte del sogno sono state sbarrate a doppia mandata e di provare a riaprirle non se ne parla neanche. Johnny capisce. Vede frotte di epigoni e qualche volgare imitatore assurgere a fama e gloria planetarie, senza batter più ciglio. E sprofonda. Nell’alcol e nella droga, quest’ultima soprattutto, in un vortice che sembra partire dal centro perfetto dell’inferno. Le sue apparizioni on stage, per quanto numericamente non rare, perdono in forza e in appeal. Certo, la sensazione di avere davanti un cavallo di razza, un fuoriclasse, non viene mai meno. Qualcuno continua a seguirlo e non sono pochi coloro che nel corso degli anni Ottanta rimangono fulminati dalla sua stella. L’ineffabile poseur, il costruttore di frasi ritmiche assassine, il sologuitarist così scabro e incisivo, continuano a comporre l’immagine e il suono di un musicista fuori dall’ordinario.
Poco importa che la produzione in studio non possa (non voglia?) ormai essere all’altezza del passato e, soprattutto, delle speranze. Basta qualche sprazzo di genio qua e là (In Cold Bood, Diary Of A Lover e Hurt Me) per tirare avanti. E così continuano i tour in Europa, Stati Uniti e Giappone. E con essi gli abusi, i collassi in scena e fuori. Da Londra a Parigi, da New York a Tokyo, è un continuo tener dietro alla frenesia. I fantasmi, ormai, sono ovunque e le scimmie sulla schiena sono sempre più terribili da gestire. Vena, siringa e laccio emostatico. Tenersi in piedi a qualsiasi costo, contro ogni ragione. Il palco non si abbandona mai. Sempre si imbraccia la chitarra e si alza il volume per raccontare se stessi. Ché, almeno, la gente sappia che cosa ha deciso di relegare ai margini!
L’ultima tappa, neanche a dirlo, è una città che prima di una recente, terrificante alluvione è la quintessenza simbolica della musica: New Orleans. Nell’ennesima camera di un ennesimo albergo niente-di-che, l’ago trova una vena buona e pompa dentro l’ennesima dose (seppur di metadone). L’oscurità piomba giù con un rombo sordo. Stavolta il buio duro e impenetrabile vince la resistenza degli ultimi bagliori. Le luci si spengono, davvero. E la musica è finita. Finita. Johnny chiude gli occhi, magari ha il tempo di un ultimo ghigno impertinente. Forse di un ultimissimo rimpianto. Poi, più niente. È il 1991. E la Storia se ne va. Per le sue strade sporche e annichilenti.