Quant’è marginale l’Italia nel “Grande Gioco”
30 Marzo 2016
di Daniela Coli
Gli attentati di Parigi e Bruxelles hanno portato la morte in Europa e ci hanno sconvolto, ma sono anni che il terrorismo miete vittime in Medio Oriente e Africa. Jason Burke, autore di The New Threat from Islamic Militancy (2015) e del bestseller Al Qaeda, giornalista investigativo del “Sunday Times”, scrive sul “Guardian” del 27 marzo scorso che dal 2001 al 2014 in Europa occidentale i morti per terrorismo sono stati 420 su una popolazione di quasi mezzo miliardo di persone, mentre in Iraq sono stati 42.759 e in Siria oltre 3.000.
Dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dal Belgio, dalla Macedonia e dal Kosovo sono partiti i foreign fighters che portano morte in Medio Oriente e Africa, e, infine, da noi. Dopo gli attacchi del 13 novembre, il presidente Assad dichiarò che in Siria attentati come quelli di Parigi avvenivano quotidianamente da cinque anni. Per Alberto Negri, il corrispondente del “Sole 24 ore”, i jihadisti inviati a combattere in Siria, quando si sono accorti di essere stati abbandonati e di essere ormai incalzati dall’aviazione russa e dall’esercito siriano, sono tornati in Europa a colpire chi li aveva mandati in Medio Oriente con licenza di uccidere.
La Siria è solo uno dei fronti della jihad creata nelle tante Molenbeek d’Europa, diventata una fabbrica di Isis, un network internazionale che da Londra, Parigi, Bruxelles ha i suoi terminali in Medio Oriente e Africa. Inutile maramaldeggiare i belgi, perché tutte le intelligence europee hanno ignorato terroristi già noti che circolavano per l’Europa senza frontiere, prendevano aerei da aeroporti europei per raggiungere Medio Oriente e Africa. Inutile illudersi di risolvere il problema identificando “profughi” e “migranti” che arrivano a Lampedusa, in Grecia o nei Balcani: su “Asia Times” del 22 marzo David P. Goldman scrive che il costo di un passaporto siriano è di circa 3.000 dollari ed è un gioco da bambini infiltrare migliaia di terroristi addestrati da Isis in Europa.
Non è chiaro perché le intelligence europee abbiano lasciato partire 5.000 foreign fighters per Medio Oriente e Africa, però questa “svista” potrebbe diventare un boomerang, poiché come scrive Jason Burke alla base dell’espansione di Isis c’è l’esplosione demografica africana e araba. “Asia Times” sostiene che i terroristi di Parigi e Bruxelles potrebbero essere solo l’avanguardia combattente per installare i musulmani residenti in Europa nelle istituzioni europee: in un’Europa sempre più senile e destinata a estinguersi, i musulmani potrebbero diventare, come gli immigrati in America, i nuovi europei e instaurare il Califfato. Una soluzione simile a quella prevista da Michel Houellebecq nel suo ultimo romanzo.
Ma se questa è un’ipotesi apocalittica possiamo azzardarne altre. A Molenbeek, come ricorda Negri, furono reclutati i due tunisini kamikaze che il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’11 Settembre, uccisero il comandante Massud, il celebre “Leone del Panshir” confidente della Cia, ma gli americani ignorarono anche gli avvertimenti dell’ex ministro talebano Mozdah, che già dal luglio del 2001 li aveva avvertiti che si stava preparando un grande attentato a New York. In questi ultimi settant’anni, oltre alla Guerra Fredda diventata ormai una pace rovente, si sono svolte molte guerre silenziose combattute dall’intelligence, l’inconscio degli Stati, secondo i britannici.
Per Jason Burke alla base di Isis c’è la rivoluzione iraniana del 1979. Per Baqer Moin, un iraniano emigrato in Gran Bretagna nel 1973 e assunto dalla BBC nel 1976 – autore della più seria biografia su Khomeini secondo il New York Times – lo Scià era convinto che Khomeini fosse un agente britannico, perché la BBC persiana trasmetteva tutti i suoi discorsi dall’esilio iracheno e parigino. Khomeini combatteva il panarabismo, il socialismo, il comunismo e la democrazia. Riteneva Stati Uniti e Unione Sovietica “Il Grande Satana”, perché materialisti, privi di spiritualità, pagani dissoluti, schiavi del dio denaro. Solo l’Islam per Khomeini può salvare l’umanità.
Per Burke alla base di Isis ci sono anche l’immensa ricchezza generata dal petrolio, Osama bin Laden armato dagli Stati Uniti per provocare l’intervento russo in Afghanistan, l’11 Settembre, le guerre di Bush e le primavere arabe di Obama. Però Burke è britannico, oxoniense, da anni analista dell’Islam e non ritiene, come la maggior parte degli occidentali, che per l’esplosione della jihad siano state determinanti esclusivamente le guerre di Bush. Osama bin Laden, per Burke, non ha attaccato il WTC solo per uccidere, ma per attirare l’attenzione sull’Islam. Il 9/11 live è stato il maggior regalo che si potesse fare ad al Qaeda.
Come per il protagonista di The Reluctant Fundamentalist, del pakistano Mohsin Hamid, pubblicato da Oxford University Press nel 2007, l’11 Settembre risvegliò l’orgoglio di qualsiasi arabo e africano, dovunque fosse, e fece nascere anche negli arabi e africani più americanizzati la speranza di abbattere il Colosso americano. Gli Stati Uniti ripeterono l’errore della Russia e invasero l’Afghanistan. Per Patrick Cockburn i video e le foto delle torture e dei crimini (Abu Ghraib è una prova agghiacciante) ai danni di iracheni e afghani diffusi dai media in Gran Bretagna, spinsero molti giovani britannici di origine araba ad andare a combattere per al Qaeda e poi per Isis, che è una specie di legione straniera.
Isis si allea con i sunniti di Saddam Hussein, cacciati dal governo sciita insediato dagli americani; con i siriani che volevano rovesciare Assad e ha fondato “Sirak” (Siria + Iraq) che funziona a tutti gli effetti come un nuovo stato. Isis si sposta in Africa: in Libia si allea con gli ex gheddafiani o con le milizie contrarie a interventi Onu. Sempre in Africa, Isis destabilizza con attentati terroristici e guerriglie feroci i già fragili Stati del continente, e le ex colonie francesi e britanniche chiedono aiuto ai governi francesi e britannici che inviano truppe in soccorso.
Se la Francia è il guardiano del Sahel, una grande potenza in Africa, lo deve anche alle truppe inviate per combattere i tentativi dei vari jihadisti e foreign fighters di abbattere i governi delle sue ex colonie. Similmente, le truppe britanniche combattono in Africa contro Isis, in paesi come la Nigeria, il Sud Sudan, la Somalia, nell’area del Corno d’Africa, per difendere la popolazione dal terrorismo islamista. Le truppe britanniche combattono anche in Yemen insieme all’Arabia saudita, alleato storico, e in Libia, dove difendono il governo di Tripoli, vicino ai Fratelli musulmani.
E l’Italia? Il nostro Paese ha perso l’unica ex colonia con cui nel 2008 aveva firmato sette accordi economici e un trattato di partenariato, la Libia. Nonostante gli annunci del governo Renzi sulla formazione di un governo di unità nazionale che richiederebbe l’intervento italiano con mandato Onu, l’Italia è ormai fuori gioco in Libia, perché l’ennesimo esecutivo insediato dalle Nazioni Unite è osteggiato in questi giorni non solo da Tobruk, appoggiato da Egitto, Francia e Russia, ma anche da Tripoli, governata da partiti vicini ai Fratelli musulmani e appoggiato dai britannici.
Non si comprende per quale ragione il governo Renzi continui la polemica con l’Egitto per lo sventurato Regeni, i cui tutor di Cambridge erano e sono sostenitori dei Fratelli Musulmani e vorrebbero rovesciare Al Sisi. Se il governo Renzi continuerà nella polemica con l’Egitto di Al Sisi, l’Eni, l’unica multinazionale rimasta all’Italia, finirà per perdere l’appalto del mega-giacimento “Zohr” a vantaggio di Francia, Russia, Gran Bretagna o Israele, che pare molto interessato a Zohr.
Nel nuovo quadro internazionale, l’Italia appare debole sia in Europa (per le ragioni lucidamente affrontate da Lucrezia Reichlin sul “Corriere” del 27 marzo) sia in politica estera. Questo mentre l’amico americano, l’unico alleato a cui l’Italia si è appoggiata per settant’anni in funzione antibritannica e antifrancese, si defila dall’Europa.
Mentre gli Stati Uniti abbandonano l’Europa e il Medio Oriente, dopo le fallimentari guerre di Bush, e si concentrano su America Latina e Asia, l’Italia è talmente debole che oggi Metternich la definirebbe un’espressione di Google Maps.