Quanto può reggere il sistema bancario in Italia?

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Quanto può reggere il sistema bancario in Italia?

10 Ottobre 2008

La crisi finanziaria peggiore dal 1929 continua a bruciare miliardi di capitalizzazione. Dopo la decisione congiunta delle principali banche centrali mondiali di un taglio ai tassi di 50 punti base e le sempre più frequenti opere di nazionalizzazione di istituti di credito nazionali, in Italia ci si domanda quanto possa reggere il sistema bancario.

Alla luce di un mese davvero singolare per la finanza globale, sono molti i risparmiatori italiani che si domandano legittimamente quali rischi stanno correndo. La tensione accumulata in queste settimane di fuoco può sfociare in isteria ma bisogna ricordarsi sempre che, almeno in questo caso, non tutto il mondo è paese. Nonostante i crolli borsistici, la parvenza è che il sistema bancario nazionale sia solido. La società di rating Moody’s ha confermato l’outlook stabile per le nostre banche, aggiungendo che il loro livello di patrimonializzazione appare elevato rispetto al resto d’Europa.

In effetti, per ora, siamo stati ben più che fortunati, specie considerando che la Germania ha appena elargito 35 miliardi di euro per il bailout di Hypo Real Estate e che nel Regno Unito hanno parzialmente nazionalizzato quasi una decina di istituti di credito. Proprio quest’ultima però è stata la banca che più ha fatto preoccupare il nostro paese. Incalzato dalla raffica di domande su come potrà agire il governo nei prossimi giorni, il premier Silvio Berlusconi ha ribadito che le banche italiane «Non hanno sottoscritto prodotti cosiddetti tossici sul mercato americano».

Tuttavia, ricorda il Cavaliere, «c’è una sola banca che aveva acquistato una banca tedesca che è l’UniCredit, che è stata chiamata da Banca d’Italia a fare un aumento di capitale per coprire le perdite che questa filiale tedesca aveva raggiunto». Tutto vero, anche se fanno riflettere le dichiarazioni dell’amministratore delegato del gruppo di piazza Cordusio, Alessandro Profumo, che nei giorni scorsi ha ammesso che nella redazione dei bilanci preventivi vi furono «numerosi errori di valutazione». Errori che ammontano ad oltre 700 milioni di euro: una cifra molto elevata, ma che non raggiunge gli abissi che, almeno in Italia, hanno rispolverato il termine miliardi. Anche sul fronte del crack Lehman Brothers, il quadro non è nefasto, considerato che l’esposizione totale dei primi venti gruppi bancari non supera lo 0,5% del patrimonio complessivo, per circa 2 miliardi di euro, secondo Bankitalia. Un dato che fa riflettere sul carattere stesso dei mercati di azione degli istituti di credito italici, fortemente localizzati.

La chiave di volta sembra essere la territorialità. Considerando che la crisi del credito che stiamo vivendo ha una forte componente endogena di asimmetria informativa, non si può negare che lo sviluppo territoriale delle banche può contribuire a ridurre il rischio di insolvenze. Agire in questo modo, privilegiando un core business locale, piuttosto che su larga scala, significa conoscere quasi singolarmente gli individui che depositano i propri soldi presso gli sportelli della banca. Sia questo tipo di informazione, sia il modello introdotto da Basilea 2 a regolamentazione del credito, contribuiscono ad un livello di conoscenza della clientela molto maggiore, che influenza anche la tipologia di investimenti. Si, perché entra in gioco una forte componente sociale, secondo la quale la reputazione nel paese diventa fondamentale, sulla falsariga di un giudizio da parte di una società di rating. Allo stesso modo, territorialità significa reinvestire nella stessa area, operando per il miglioramento delle condizioni economiche della stessa. Questo può essere il caso delle banche di credito cooperativo o delle piccole realtà locali. In quest’ottica, forse anacronistica rispetto a sistemi bancari molto più global oriented, l’Italia sta risentendo molto meno della crisi subprime.

Quello che è certo è che graverà su di noi un forte credit crunch che investirà in primis le imprese e, di conseguenza, le famiglie. Quest’ultime saranno colpite anche da un costo delle vita in ascesa, a fronte di salari fermi. L’urgenza, non tanto per evitar il contraccolpo finanziario quanto per schivar la frenata dell’industria, sembra essere quella di ridurre la pressione fiscale. Oltre alla garanzia dei depositi bancari, sul cui modello di utilizzo possono sorgere molti dubbi, sarebbe questo il vero motore per non far rallentare ancora di più la nostra economia.