Quanto vale una donna se è prigioniera in un gulag?

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Quanto vale una donna se è prigioniera in un gulag?

12 Aprile 2009

Quanto vale un uomo? Niente, se è prigioniero in un gulag. Tuttavia è possibile che, nonostante “il pasto da bestie”, le condizioni di vita atroci, i lavori forzati ai quali non resisterebbe nemmeno un animale, le sopraffazioni fisiche e psicologiche, un uomo (o una donna) sopravvivano come rafforzati nello spirito. Qualcuno di loro ha stretto i denti. Ed è andato avanti per superare l’inferno, con l’obiettivo di raccontarcelo.

È il caso di Evfrosinija Kersnovskaja (1907-1994), nata a Odessa, figlia di un avvocato polacco e di una madre greca, insegnante di lingue. Una ragazza di buona famiglia, dunque, con ottimi precettori. Ricevuta un’educazione letteraria e musicale di ottimo livello, arriva a conoscere sei lingue e sviluppa una spiccata tendenza per la scrittura e il disegno. È, insomma, una giovane molto istruita. E diventa una donna che non resiste al fascino del lavoro nei campi, al contatto con la natura. Attitudine, questa, che si rafforzaa quando si trasferisce con la famiglia in Bessarabia (l’attuale Moldavia) per sfuggire al regime sovietico.

In Urss sono anni terribili. Domina Stalin. “Baffone” progetta l’annientamento dei suoi nemici nei campi di prigionia con l’obiettivo di sterminare i controrivoluzionari, ovvero la classe dei professionisti, come appunto i Kersnovskj. E, purtroppo, anche per Evfrosinija, arriva il tragico momento. Nella notte fra il 12 e il 13 giugno del 1941, la polizia comincia “l’operazione di prelievo dei partecipanti alle organizzazioni controrivoluzionarie e degli altri elementi antisovietici” in una regione che appena un anno prima apparteneva alla Bessarabia, prima di essere smembrata. Per la maggior parte, poveri cristi. Incolpevoli. Con loro c’è quella donna, Evfrosinija.

Cominciano undici anni terribili, costellati di privazioni, umiliazioni, dolore, nostalgia, vilipendio, vessazioni, malattie. E fame. Dorme sui tavolacci in capannoni sporchi e senza servizi, vede morire centinaia di “compagni, anzi di fratelli”, sopporta accuse campate in aria, oltre che decine di giorni nelle celle di rigore. Trova il modo di scappare da uno di quei campi, ma viene acciuffata sei mesi dopo e condannata a dieci anni di lavori forzati. Poi finisce nell’infermeria di un ospedale. Tutto sommato un lavoro buono, che però rifiuta. Scende così in miniera: pala e piccone, schiena rotta e buio pesto. Ma lei preferisce così, perché finalmente si sente circondata da persone, dato che “i mascalzoni non vanno sotto terra”. Evfrosinija resiste, conserva la sua dignità, tiene alta la bandiera di essere umano che non perde la capacità di intenerirsi e di avere a cuore la sorte del prossimo.

Di questa esperienza tiene una specie di diario, animato dai disegni, che un giorno però è requisito da una guardia. Esce dai gulag nel ’52. Otto anni dopo, non ha dimenticato nulla di quella esperienza: conserva dentro di sé nomi e cognomi, luoghi e circostanze, patimenti e aguzzini. E ricomincia a (ri)scrivere (e a disegnare) il suo diario, pubblicato qualche mese fa da Bompiani con il significativo titolo di “Quanto vale un uomo”.  Una testimonianza implacabile, persino con qualche sprazzo di ironia, su un orrore ammantato di ideologia. “Memorie? No, solo fogli su cui sono tracciati semplici ‘scorci’ del passato. Come sbiadite foto di famiglia, preziose solo per chi, nelle immagini sfumate, riconosce i visi di persone morte da tempo: parenti, amici… e in qualche caso anche nemici”.