Quattro mesi in carcere per una frase intercettata e un delitto non commesso

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Quattro mesi in carcere per una frase intercettata e un delitto non commesso

29 Giugno 2010

Quattro mesi in carcere. Con un’accusa infamante, pesa come un macigno. Di quelle che ti spezzano il fiato e la vita: sequestro di persona, omicidio aggravato e occultamento dei cadaveri dei due figli, 13 e 11 anni. Quattro mesi chiuso in cella, guardato a vista. Una frase registrata in un’intercettazione ambientale, diventa la prova che la procura impugna per chiudere il caso dei due fratellini di Gravina di Puglia, Francesco e Salvatore.

Una tragedia che ha sconvolto l’Italia e distrutto una famiglia. Il 27 novembre 2007 la vita di Filippo Pappalardi rimane sospesa tra le sbarre, chiusa in due metri per tre da una chiave che gira nella serratura e a ogni giro ti toglie il respiro, insieme alla disperazione per i due figli che non si trovano, scomparsi nel nulla. Una storia come tante nella quale la libertà di una persona vale una frase intercettata e messa a verbale, nel dossier della procura che non ha dubbi: i due fratellini sono "morti per mano del padre".

Quattro mesi dopo la svolta: Filippo Pappalardi è innocente, i suoi figli sono morti cadendo in un buco della "casa dalle cento stanze". Una storia che riletta oggi, fa riflettere. E dice molto sull’uso talvolta disinvolto di uno strumento fondamentale per le indagini quale quello delle intercettazioni.

E’ anche alla luce di storie come queste che vale la pena domandarsi se non sia necessario regolamentarne l’uso per tutelare il lavoro degli inquirenti evitando veline e fughe di notizie puntualmente pubblicate sui giornali nella fase più delicata di un’inchiesta. Al tempo stesso, rimettere al centro un concetto chiaro:  viene prima il diritto alla riservatezza dei cittadini, sancito dall’articolo 15 della Costituzione.

Una battaglia di civiltà e di libertà che da settimane sta portando avanti l’associazione che prende il nome da quell’articolo che i costituenti hanno voluto fissare nella Carta ben prima del diritto dei cittadini a essere informati (articolo 21) e dell’obbligatorietà dell’azione penale (articolo 24).

Ma l’impegno dell’associazione alla quale hanno aderito centinaia di persone del mondo accademico, politico, della società civile è finalizzato anche a ribaltare il concetto che, strumentalmente, viene evidenziato nei sit-in di protesta o nelle manifestazioni di piazza (come sarà il 4 luglio a Roma col "Popolo Viola") e cioè che l’ingerenza nelle conversazioni private tra persone sia una questione che riguarda solo chi ha qualcosa da nascondere e non le persone per bene. Non è così. E’ un problema di tutti, è un problema che riguarda la libertà di tutti.

Basta una frase per distruggere una persona. E così è stato per Filippo Pappalardi, scarcerato nell’aprile 2008 e uscito dall’inchiesta un istante dopo. Ma quei quattro mesi vissuti in cella con il sospetto di essere l’assassino dei suoi figli chi glieli restituisce, insieme alla sua dignità calpestata, violata, cancellata?

Eppure la procura di Bari aveva certezze granitiche che lo stesso procuratore Emilio Marzano spiegava così: "Siamo arrivati alla conclusione che sono morti per mano del padre. Le indagini scrupolose e meticolose ci hanno portato a formulare questa tragica ipotesi accusatoria, si tratta di un fatto tragico. Non sono morti per opera di un demonio o di altra figura ma secondo la nostra ipotesi, per mano del padre". Pappalardi era un "padre che sapeva essere violento" – motivava il magistrato – e nella serata del 5 giugno 2006 "voleva dare una lezione" ai suoi figli, perché non li voleva più, non li sopportava più. E la frase detta alla convivente: "Non dire dove sono altrimenti mi uccido", diventa la prova della sua colpevolezza.

I pm si opporranno alla richiesta di arresti domiciliari presentata dai legali soffermandosi sulle "reticenze e gli alibi falliti" dell’indagato, sui movimenti di quel 5 giugno e sui contenuti "allarmanti" delle intercettazioni ambientali "da cui emerge – scriveranno – che il padre conosceva la sorte dei figli, fino alla drammatica espressionme di terrore che si potesse pervenire all’individuazione dei corpi". 

Ma Filippo Pappalardi che quella sera maledetta aveva denunciato la scomparsa dei  figli si è sempre proclamato innocente. E quando è uscito dal carcere ha raccontato il suo incubo. Chiedendo indietro la sua dignità, rimasta appesa a un’intercettazione ambientale e a un "verdetto" poi smentito dai fatti.