Quegli intellettuali che per distruggere il Cav. distruggono solo loro stessi

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Quegli intellettuali che per distruggere il Cav. distruggono solo loro stessi

07 Giugno 2009

Berlusconi come “un pericolo e un cattivo esempio”, un pericolo per il sistema politico e un cattivo esempio per la morale pubblica e, ora, per quella privata degli italiani, rappresenta il punto d’approdo lessicale di una lunga battaglia.  La formula, nella sua apparente moderazione, è destinata ad essere  efficace non solo presso i colti (a destinazione colta è l’accusa di “populismo” o, per un certo periodo, è stata quella di “giacobinismo”); oltrepassa quanti, nell’intelligencija diffusa, costituiscono quella "sinistra che le spara grosse" a se stessa e al paese, e dei quali non è certo che abbiano "consapevolezza di quello che fanno, e dunque debbano sentirsi come annichiliti dalla propria sparata". (Sorprenderà il lettore, ma cito espressioni di Francesco Merlo, scritte alcuni anni fa.) Così si cerca di stendere  sulla penisola la cappa dei mala tempora, confezionata per tempo da Giovanni Sartori. Un grande storico contemporaneo delle idee politiche, John Pocock, a proposito di linguaggio e paradigmi scriveva: "Le parole divengono paradigmatiche, nel senso che possono venir usate da più d’uno per trasmettere più d’un contenuto o imprimere loro un ‘taglio’, e la comunicazione sociale diventa una sorta di partita a tennis, in cui mi è permesso di importi la mia palla ‘tagliata’ a condizione che tu possa imprimere il tuo ‘taglio’ nel rimandarmela. (…). Ma può capitare che venga sparata dalla canna di un fucile una palla in nessun senso rimandabile. Vale a dire: inviarmi una comunicazione a cui non posso assolutamente imprimere quanto io voglio dire nel rimandarla significa inviarmene una cui mi è, di fatto, proibito rispondere, dato che mi viene proibito di fare qualsiasi comunicazione negli stessi termini (…)".

Anche "cattivo esempio” (pubblico e privato)  è, come altri elementi dello stesso arsenale della lotta politica italiana in corso, un’arma impropria; corredata di colonne e di foto quanto basta per trasformare inequivocabilmente la pocockiana palla da tennis in un micidiale proiettile full metal jacket. S’intende che si può rispondere, sempre col fucile. Chi tra i contendenti è meno distante, ad esempio, dalla definizione d’uso (estensiva) di giacobinismo, formulata così da Croce: "l’atteggiamento pratico che, movendo da un astratto ideale, ricorre all’imposizione e alla violenza per attuarlo"?

La continuità di una guerra senza quartiere (di cui la gioiosa machine è non sola, ma per eccellenza, la Repubblica) usa lessico, analisi, notizie che sono coerentemente, quali ne siano l’oggetto e l’occasione, sempre e solo armi omicide. Una chiave lessicale/balistica meritevole di attenzione è quella della barbarie o imbarbarimento, a scalare, dalla politica delle nazioni a quella della società italiana e della politica quotidiana. Una classica e imbarazzante categoria (con barbaro si stigmatizza l’Altro! dice il progressista quando gli viene comodo), dunque, viene associata ad un ragionamento che regolarmente si risolve nel mirare ad un uomo; il resto è orpello.

In genere, è tutto il compatto orizzonte o reticolo degli “argomenti” prodotti contro il premier e il suo governo (personale e istituzionale) da parte degli oppositori, che deve essere considerato un arsenale bellico, ed anche efficace, come almeno nel passato hanno mostrano i suoi risultati sul bersaglio. Non vi è parola di opposizione (salvo poche e di poche persone) che non sia assemblata e rinforzata come per essere "sparata dalla canna di un fucile".

In effetti, ben poco di veramente nuovo. Ho l’impressione, ma non mi sento documentato come vorrei in proposito, che materia e processi, linguaggio e logica con cui, a turno, le opposizioni politiche e intellettuali della storia dell’Italia repubblicana hanno rappresentato il Nemico (uomini, ceti e partiti) al potere, e il "mondo" come effetto dell’esercizio del potere da parte del Nemico, siano ancora da studiare. Resta da studiare, ad esempio, il materiale argomentativo e simbolico della drammatica aggressione all’egemonia democristiana condotta negli anni Sessanta e Settanta (Berlusconi stesso ha ricordato in questi giorni l’affaire del Presidente Leone), coronata prima dall’assassinio di Moro, poi dal massacro civile di Tangentopoli. E, però, anche dall’affossamento dei vincitori: sinistre e destre d’opposizione (al “sistema”) di ogni tipo e livello.

Era un’Italia naturalmente popolata di mostri, sprofondata in abissi di alienazione; mostri e alienazioni che gli aggressori di allora ora paiono rimpiangere. Detto per incidens: colpisce che molti si rammarichino in buona fede della perdita di dominio da parte dei partiti della "prima Repubblica". Quasi che per decenni la saturazione di ogni rilevante spazio ed esercizio potestativo, da parte di élites e quadri e clientes dei diversi e opposti gruppi dominanti, non abbia costituito e legittimato il più subdolo (perché ‘impersonale’ e diffuso) "conflitto di interessi" della storia repubblicana.

Proprio il non essere un ex (della Prima repubblica) ha  potuto, anzi, essere una colpa. Cito da un documento delle battaglie di un ciclo politico fa: "Forse solo Berlusconi non è un ex, perché è senza passato, vale a dire senza storia. Disgraziato quel popolo che, sperduto nella sua storia, se la ‘lifta’. Una storia ‘liftata’ è piattezza, è storia decebrata, perché è uguale a se stessa in qualsiasi punto" (Francesco Merlo, la Repubblica, 6.2.2004). Ove basterebbero l’idea insensata che un leader che non proviene dalla politica sia un "senza storia" e la battuta che suo lifting non possa non "decerebrare" la storia in cui opera, per misurare il grado di corruzione delle migliori intelligenze, una volta arruolate in una société de pensée. Ma sappiamo che quos perdere vult deus dementat prius, ora come allora.

Un’efficace stagione di costruzione del Nemico ordinata alla sua distruzione politica e materiale (essendo ogni altra motivazione, nel migliore dei casi, self-deception) è, comunque, quella nuovamente, e instancabilmente, in atto. La ‘(de)costruzione’ che ne segue è l’unica effettiva azione politica che le opposizioni siano riuscite e riescano ad esercitare. In virtù (direi) di due fattori. Il primo è in realtà un vincolo: costituito dal dato che la persona privata (l’imprenditore è figura privata, ovvero della società civile) del premier è stato e resta l’unico terreno obiettivamente praticabile dall’attacco di opposizioni senza unità e senza idee (riducibili ad unità) di governo, se non inattuabili, o autodistruttive delle alleanze, o elementari, o desuete. Il secondo, che qui interessa di più, è costituito invece da una grande risorsa endogena delle sinistre: la lunga esperienza strategica e tattica dell’intelligencija  ‘illuminata’ nel patetizzare la congiuntura storica e ‘demonizzare’ (parola recente e inflazionata che non amo, ma che è qui tollerabile) l’avversario. 

.Non che non si capisca quanto appagante sia cedere alla tentazione del vetriolo in faccia all’avversario (che è, nella sostanza, l’esercizio quotidiano del plesso Repubblica-Unità; lascio da parte altri quotidiani dell’opposizione); ci si emoziona, ci si "sente vivi", non si pensa, si fanno lavorare gli altri (dai no-global ai giudici ai sindacati all’Economist, al Times; si affidano compiti persino al Vaticano e alla CEI), si hanno piccoli momenti di gloria; il gioco porta persino frutti. Ma la migliore metafora di tutto questo è la coazione del giocatore alla slot machine.    Ovvero prevale la scelta ludica, o onirica, che ancora una volta, dopo la omicida kermesse di tutti gli arcaismi ideologici negli anni Settanta, immunizza la cultura ‘illuminata’ in una condizione di esternità rispetto al "paese reale", nell’illusione di proteggerlo o vendicarlo.

2. Quando un conflitto a fuoco è in corso, anche un minimo di distacco diagnostico sembra impraticabile. Ma tentiamo.

Due punti principali.

Il primo. Nell’attualità italiana si deve riconoscere che opera, per l’aspetto sociale di questa reticolarità antiberlusconiana, una convergenza di spontaneità aggregative e di calcolo strategico. Certo, una "regìa" prende per mano le emozioni, collega la dimensione spontanea con quella indotta ed integra il denotativo col connotativo deturpante, provocando (e ‘fingendo’) presso l’opinione pubblica la negatività ultima di ogni evento e tratto del leader, dei suoi uomini, della sua politica. Ma è una regìa sui generis; quanto ha di complottistico è meno importante di quanto è in essa riconducibile ad un méchanisme diffuso e pubblico. L’aggressione al Premier oggi in corso conferma la plausibilità della evocazione, sulla scena italiana, delle sociétés de pensée, della loro coazione a modellare come un’arma una opinion sociale, a iterare attacchi in tutte le direzioni purché la loro creatura armata (l’opinion) non venga ulteriormente intaccata dal dubbio e persista nella propria opposizione al Pouvoir.

E’ nota (anche Sergio Romano vi dedicò anni fa attenzione) la figura storica delle sociétés de pensée, ovvero di quella formazione o formazione di formazioni, che moltiplica e unisce congiunturalmente gli intellettuali "critici", l’intelligencija più difforme, nella ruminazione ed nella espressione anzitutto discorsiva dell’opposizione al Sovrano. Le sociétés de pensée furono individuate, denominate e studiate nel corso del primo decennio del Novecento da Augustin Cochin, il giovane erudito (e quale storico!) cattolico antirepubblicano che, idealmente e paradossalmente alla scuola di Durkheim e Lévy-Bruhl, ha reso possibile come pochi altri la nostra attuale libertà nei confronti del mito rivoluzionario francese.

Perché tali sociétés invisibili, a genesi intellettualistica, possano uscire dalla latenza è necessario, per dire così, un catalizzatore; senza catalizzatore queste potenti figure generative dell’opinione pubblica, che tendono a parlare a nome della società civile ed anzi a porsi come l’autentica società civile stessa, tornano ad essere ciò che ordinariamente sono, cerchie tra loro inomogenee e in concorrenza, o scompaiono. Forse è per l’attuale manifestazione di vitalità e di buona salute di tale méchanisme, ricaricato dal ritorno del Cavaliere al governo,  che nell’opposizione non si fanno (o non si mostra di aver fatto) bilanci, per quanto provvisori. L’azione quotidiana contro il premier ha nel passato messo la maggioranza sulla difensiva, l’ha sorpresa spesso intenta a costruire ripari e l’ha costretta a contrattaccare, talora disordinatamente o senza convinzione, su terreni di volta in volta tecnici o etici, che non era essa a scegliere.

Così l’opposizione era effettivamente riuscita (sia detto senza niente togliere agli errori della coalizione di governo) a bloccare o ritardare o disordinare l’azione di governo specialmente nei settori programmatici portanti, nei quali anche la semplice continuità dell’azione governativa sarebbe stata indesiderabile, e ne ha ricavato vantaggi tattici a cascata. Può imputare al premier ciò che in parte essa gli ha abilmente imposto: inefficienze e inadempienze, priorità data agli ‘interessi’ personali, disarmonie con gli alleati, tensioni con la presidenza della repubblica.   Si osserva: tattica immobilizzante perfettamente lecita in termini di cruda lotta politica; peccato sia condotta (col basso continuo della deprecazione) sotto il segno della legittima denuncia e della crociata civile e morale (e, talora, religiosa).

 Il secondo. Tutti sanno, però (poiché regolarmente si conferma), che un cospicuo settore delle sociétés de pensée, dell’intelligencija, che sta capillarizzando contro il Nemico una campagna fatta di parole (cui provvedono i giornali) e di piazza (cui provvedono le risorse sindacali e movimentiste), viene tagliato fuori dalla coalizione anti-Berlusconi eventualmente vincente. Non è plausibile che un grande centro(-sinistra) che si proponga di erodere  al Cavaliere sia gli elettorati settentrionali che quelli meridionali possa domani dare spazio alle ‘minoranze’ di sinistra (incluse parti della stessa sinistra ex-DS e della nevrosi cattolico-democratica) nell’organigramma di un qualsiasi governo anche locale.

Ora, vi è in ciò molto di sintomatico. Che ciò che resta della "politica" (alta) di opposizione pensi strategicamente con un simile realismo, com’è probabile, ma ritenga di lucrare contemporaneamente dai risultati distruttivi (non solo di erosione del premier ma di molto altro) della quotidiana incriminazione e squalifica del Nemico; che, insomma, lasci agire l’intelligencija con gli strumenti infamanti e patetizzanti che da sempre conosce, e pratica con slancio perché sono la sua vita stessa (dall’indignazione alla diffamazione, dal disprezzo all’irrisione falsificante), senza supporre di dover scontare tutto questo politicamente e moralmente (e non per la prima volta), o di star già pagando il conto, è un pessimo sintomo. 

Come non suppore, infatti, che a) nell’eventualità di un qualche  successo elettorale su Berlusconi, il nucleo moderato che solo potrà governare dovrà liquidare, come detto, una parte quella base di sociétés che ha (avrà) condotto per anni l’estenuante, ottuso lavoro ai fianchi del leader, e partire da capo; b) nell’eventualità di una nuova sconfitta, la sinistra in particolare si troverà in un campo di macerie, di risentimenti frustrati, in aggiunta all’assenza  strutturale di una "ragione politica" all’altezza del presente? 

3. Non è il Bersaglio delle sociétés (cioè il capo del governo) colui che può arrestare il méchanisme; non solo perché, in termini di sistema politico, il méchanisme è nerbo dell’opinione pubblica moderna ed è (anche de iure) inattaccabile in democrazia, ma perché, in termini di fatto, ogni reazione contro l’intelligencija ‘critica’ ottiene il suo potenziamento, almeno quando il gioco è in corso, come la vicenda italiana mostra ogni giorno: aggredito, il nesso, il lien d’union, tra membri e cerchie aumenta la sua stretta, quella per cui già ordinariamente, nella rete militante, "chacun se soumet à ce qu’il croit approuvé par tout le monde" (così, per Cochin, si diffonde l’opinion sociale), mobilita altre risorse, convince gli incerti ad intervenire in ausilio ai combattenti. 

Non è il Nemico, dunque, che ha ordinariamente la chance di arrestare il meccanismo che lo assedia, anche se ha il diritto, politicamente ben fondato, di difendersi. Lo può (e lo deve) chi in parte alimenta il méchanisme  dall’interno e si illude di fruirne, se non altro in termini di vantaggio contingente ("intanto lasciamogli distruggere Lui"). O lo stesso méchanisme, costituito nel più classico dei modi, su pretese di Verità, Libertà, Giustizia e Virtù, giunto al suo buon esito distruttivo, impedirà a chiunque altro di governare. Anzitutto a quei partiti la cui residua anima è oggi uno dei motori della lotta senza quartiere (tipica ribellione senatoria) contro l’ homo novus. 

 Scriveva Cochin sotto la duplice esperienza della ricerca storiografica e dell’osservazione dell’intelligencija a lui contemporanea: "le sociétés [de pensée] creano una République ideale ai margini della vera, un piccolo stato ad immagine del grande, con l’unica differenza che non è reale. Le decisioni prese sono solo auspici [voeux], e (dato fondamentale) i suoi membri non hanno personale interesse né responsabilità riguardo alle questioni [affaires] di cui parlano". L’amico De Meaux (al cui bel profilo del 1928 attingo) glossava: "Realizzazione di una società irreale, costruita sulla carta da irresponsabili, questo è lo stile di lavoro nelle sociétés de pensée". S’intende, nella vicenda rivoluzionaria si passerà dalle armi della critica alla critica delle armi, ma secondo Cochin lo stile deliberativo già operante nel 1785 resta in quello delle sociétés al potere del 1794.

È necessario che l’opposizione, specialmente la più recente e inesperta, sappia come operano, sempre anarchicamente in virtù dell’assetto moralistico-utopico della loro machine mobilitante, le sociétés de pensée. Le parole sono tutte ‘tagliate’ per inibire nel bersaglio la risposta. Nel senso di Pocock: per ‘uccidere’ il Nemico. Ma il nemico da uccidere, magari usando l’argomento della legalità, per accelerare la Rigenerazione (della Storia, del Paese, della Sinistra), è sempre il Potere legittimo. È vero: i quadri militanti dell’intelligencija non sopravvivono a lungo al successo; ma questo non rassicura quanti temono gli effetti perversi delle loro prassi. Le stagioni ‘rivoluzionarie’ che usano le parole come proiettili si scontano, infatti, collettivamente in termini (questi veri!) di arretratezza della cultura politica, che non risparmia alcuno. Esempio non remoto il Sessantotto europeo e le sue eredità.