Quei borghesi un po’ santi e un po’ mascalzoni

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Quei borghesi un po’ santi e un po’ mascalzoni

18 Aprile 2010

Ogni discorso sulla borghesia incappa fin dal principio nella difficoltà di non sapere mai bene chi siano i borghesi. È infatti assai più facile, oggi, trovare chi sia disposto a ucciderne uno che chi sia disposto a definirli con precisione. Credo che si confondano le idee con l’errato presupposto che la borghesia sia una classe sociale. Per me, non lo è, e non mi attendo dunque che a definirla sia il sociologo o il politologo (tanto meno il politico), l’economista o il giurista.

La borghesia è invece un tipo umano, è un carattere, e forse il più adatto a parlarne è il romanziere o il commediografo. Poiché non sono romanziere o commediografo, ne parlerò alla buona, senza pretese. I caratteri sono immensamente più interessanti delle classi sociali: spero di non smentire
del tutto questa regola.

Il carattere borghese, come ogni altro carattere, è in parte innato e in parte coltivato. C’è chi nasce mezzo borghese, e se ne ha volontà lo diventa del tutto applicandosi da autodidatta. Non contano molto i soldi e la posizione sociale, che il figlio eredita dal padre. Contano un po’ di più le bizzarre probabilità del patrimonio genetico dei genitori, che si eredita anche quando mancano i soldi e la posizione sociale. Pertanto, si può nascere mezzo borghesi in una famiglia contadina od operaia, così come in una famiglia nobiliare; in una famiglia povera così come in una famiglia ricca.

Anzi, dimostrerò che è più facile diventare borghesi provenendo da famiglie di modesta condizione.
Non solo i borghesi possono nascere ovunque: possono nascere in ogni tempo, e di fatto sono nati in ogni tempo. Si sbaglia facendo seguire la borghesia al feudalesimo: vi erano già borghesi in epoca feudale, ve ne sono sempre stati e sempre ve ne saranno, qualunque rivoluzione si faccia. Perciò è inutile ammazzarli, ne spuntano sempre di nuovi. La nozione che, si dice, i burgenses siano citati la prima volta in una carta del 1007, ammesso che sia corretta, è senza importanza. Ci sono i burgenses ante litteram. I caratteri sono all’incirca eterni: in tutti i tempi troviamo i pessimisti e gli ottimisti,
i freddi e i passionali, i laboriosi e i pigri, i borghesi e i non borghesi.

L’evoluzione della borghesia è l’evoluzione darwiniana, che si misura a milioni di anni. La storia dell’umanità, invece, si misura a migliaia di anni: troppo poco per osservare apprezzabili cambiamenti dei caratteri. La storia ci presenta una umanità, che mediamente ha sempre la stessa natura. Perciò, per esempio, tanti episodi della storia romana continuano a commuoverci e a servirci per interpretare il presente. Non è cambiata la natura umana, sono cambiate solo le forme superficiali in cui si manifesta. Ma le forme superficiali hanno di solito importanza solo per i superficiali. Più rilevante è un altro cambiamento continuo, quello degli stimoli a coltivare, educare, sviluppare il carattere borghese,
e non piuttosto a frenarlo e nasconderlo. Non è ancora il momento, tuttavia, di discutere tale punto, sul quale tornerò.

Prima, desidero descrivere, sia pure sommariamente, il carattere borghese come lo vedo io, con la sola competenza che mi deriva dal possederlo un poco io stesso, se non mi illudo; e dall’essermi quasi sempre trovato bene in mezzo ai borghesi. Ma non intendo fare dell’agiografia, anzi premetto che il carattere borghese, come ogni carattere, non può essere tutto eguale e tutto buono. Il carattere è umano, dunque imperfetto e mutevole nella specificazione individuale. È una disposizione, che si applica variamente: si applica con virtù o con vizio. E perfino la migliore virtù, se portata all’eccesso, diventa vizio.

Insomma, si può ripetere per i borghesi quel che vale per ogni gruppo umano: ve ne sono di buoni e ve ne sono di cattivi. Ma tutti buoni o cattivi in un certo modo particolare, che dobbiamo illustrare. Sicché avremo dei borghesi santi, come san Tommaso Moro, e dei borghesi mascalzoni, come Casanova. Si
tratta di trovare il nesso tra quel santo e quel mascalzone, non di descrivere un manichino.

(Tratto da Sergio Ricossa, "Straborghese", IBL Libri 2010, pp. 20-21)