Quei conservatori che cambiarono il mondo per riportarlo all’ordine
18 Agosto 2009
I Paesi occidentali, nel dopoguerra, hanno certamente seguito una strada più moderata di quella cinese. Ma anche loro hanno sviluppato una crescita del ruolo dei governi. Welfare, regole e razionalità erano le parole-guida. Il consenso democratico in una società europea non era altrimenti rappresentabile che dall’onnicomprensivo nanny state ("stato bambinaia") inaugurato dal partito laburista in Gran Bretagna nel 1945, che introdusse la sanità pubblica e un generoso schema pensionistico, stretta collaborazione tra sindacati e governo, proprietà statale per le industrie strategiche. Il mercato era qualcosa da controllare e domare, di cui tenere strette le briglie.
La Thatcher cercò di cambiare tutto questo. Ma sarebbe stato difficile capirlo, all’inizio del suo mandato. Il suo programma alle elezioni del 1979 resta un monumento di vaghezza, e nel primo gabinetto di cui ebbe la presidenza l’ala moderata dei tories aveva una netta prevalenza. Pochi all’epoca avevano capito di essere di fronte a una figura chiave della politica britannica del dopoguerra, in grado di scardinare il sistema che aveva dominato il paese nei precedenti trent’anni. In pochi anni, la Thatcher riuscì a tagliare le tasse, privatizzare i gioielli dell’economia statale e ridimensionare i sindacati, che persero gran parte della loro passata influenza.
Come con Deng, molti commentatori non sapevano bene come interpretare la Thatcher. Dopo il suo primo anno al governo, il giornalista britannico Hugh Stephenson scrisse: “La sua retorica è radicale, a volte persino inopportuna. Ma sin dall’inizio le sue azioni sono sempre state improntate da una sorta di istintiva cautela politica”. Stephenson era nel giusto, ma né lui né altri suoi colleghi individuarono l’intensità delle convinzioni dietro la retorica della Thatcher, in particolare quella secondo cui la Gran Bretagna avesse bisogno di un rinnovamento non solo economico, ma anche morale.
Tutto ciò divenne chiaro durante la dura battaglia ingaggiata con i sindacati dei minatori e con il suo votarsi anima e corpo alle “privatizzazioni”: una parola un tempo oscura riesumata come un mantra da colui che era il capo del “think tank” thatcheriano, Keith Joseph. Il fascino della controrivoluzione thatcheriana divenne ancora più chiaro quando Ronald Reagan, che aveva già sostenuto una campagna elettorale contro Jimmy Carter l’anno in cui la Lady di ferro venne eletta, ottenne il suo primo mandato nel 1980, anche lui spinto dal desiderio di rimpiazzare la Great Society con una nuova “Morning in America”.
Sebbene gli Stati Uniti non abbracciarono mai del tutto le convinzioni dell’Inghilterra conservatrice, l’America di prima del 1979 era un posto radicalmente diverso dall’America attuale. L’universo politico era popolato da specie ormai estinte come i repubblicani moderati dell’East Coast, e da potenti leader sindacali. Negli anni Settanta, come racconta David Frum nel suo provocante libello su quel decennio dal titolo “How We Got Here”, possedere dell’oro era visto alla stregua di un crimine, i consumatori avevano a disposizione un’unica compagnia telefonica e i viaggi in aereo erano una prerogativa delle classi più benestanti. La situazione era determinata da grandi, anonime corporazioni.
Il personal computer ancora in gestazione (Bill Gates trasferì a Seattle la sede della sua piccola azienda, la Microsoft, il primo gennaio del 1979), e anche la tecnologia del tempo diede un notevole contributo alla creazione di una società sostanzialmente uniforme. Quando il presidente Nixon, un repubblicano, nel 1971 decretò il controllo di prezzi e salari, i commenti registrarono tale iniziativa senza fare una piega: in fondo, non si trattava di altro che di una comprensibile presa d’atto dell’ortodossia regnante. Nessun pensatore, tanto meno il celebrato e influente economista John Kenneth Galbraith, sarebbe mai stato capace di immaginare che un giorno si sarebbe verificata la “convergenza” di corporativismo occidentale e socialismo sovietico. Dopo tutto, non dipendono entrambi da elite burocratiche e dal desiderio di pianificatori centrali?
Tali concezioni esercitavano una sorta di costrizione generale, e ispiravano le politiche di sostegno al terzo mondo. Le “economie di sviluppo” promosse dalla Banca mondiale e dall’Fmi prescrivevano grandi progetti infrastrutturali quali dighe per la produzione di energia idroelettrica, supervisionate da un pesante apparato burocratico di vertice. Come tutto ciò si differenziasse dai progetti rivali proposti dall’Unione sovietica, non è ben chiaro. Quanto un’impostazione del genere avesse preso piede, lo si vide chiaramente in Iran e in Afghanistan. Lo Scià era un acceso anticomunista, eppure i suoi sforzi per inserire la società nazionale nella realtà del Ventesimo secolo erano sorprendentemente simili ai metodi utilizzati dal Partito popolare afgano dopo la sua presa del potere, nel 1978: riforma agraria, campagne di alfabetizzazione, secolarizzazione, diritti delle donne. E’ rivelatore il fatto che lo Scià battezzò il suo programma di riforme come la “Rivoluzione bianca”.
Non meraviglia allora che gli esperti intenti ad analizzare l’attuale crisi iraniana, si trovino così spesso in errore. I loro argomenti cadono di fronte a secoli di rivoluzioni contro le autorità religiose. Come osserva Karen Armstrong, esperta di religione, nel libro “The Battle for God”, niente meno che Hannah Arendt sosteneva che “ciò che chiamiamo rivoluzione è quella fase transitoria che porta alla nascita di un nuovo stato a carattere secolare”. Anche la “rivoluzione borghese” degli Stati Uniti stabilì il principio della separazione tra Stato e Chiesa, e quelle più radicali in Francia e Russia ambivano addirittura a sradicare la religione dal paese.
Lo stesso Khomeini attingeva da questa tradizione intellettuale abbracciandone il radicalismo, tralasciandone l’aspetto antireligioso ma facendo proprio l’ardore rivoluzionario del mondo musulmano. Per decenni, poderosi ideali secolari – panarabismo, baathismo, marxismo rivoluzionario – hanno dominato la politica mediorientale, e la connessa retorica politica, dai forti accenti utopistici, è diventata una specie di seconda natura per gli intellettuali della regione. Gli ideologi dell’islamismo allora nascente impararono molto da queste ideologie, anche se ne ebbero cocenti delusioni quando dovettero prendere atto che non erano strumenti in grado di risolvere problemi quali Israele e il “neocolonialismo” occidentale. Uno dei grandi progenitori della Rivoluzione islamica è stato Ali Shariati, un intellettuale iraniano che si ingegnò a fondere idee di sinistra con il fondamentalismo insito nella visione di un ritorno alla giustizia e all’eguaglianza di cui alla visione originaria del Profeta.
E’ comprensibile che i giornalisti venuti da tutto il mondo nel sobborgo parigino di Neauphle-le-Château per visitare Khomeini in esilio, non sapessero bene come comportarsi con lui. Si supponeva che un moderno rivoluzionario fosse una testa d’uovo del marxismo, o un intellettuale devoto a Lenin o a Mao, o un brillante giovane capellone come quei ragazzi che si erano impossessati delle strade di Parigi, Chicago o Francoforte solo un decennio prima. Questo teologo sciita dalla barba a punta e dalla lunga tunica nera non aveva nulla a che fare con questi canoni. Eppure era diventato il leader de facto della multiforme opposizione iraniana. Alcuni si spinsero a paragonare l’ayatollah con il Mahatma Gandhi. E perché no? Non erano forse entrambi uomini di fede che cercavano di cambiare il mondo?
Una delle migliori testimonianze sulla Rivoluzione iraniana del ’79 è opera di Desmond Harney, un ex diplomatico britannico dotato di un fluente farsi che, all’epoca, sapeva dell’Iran più di qualunque altro occidentale. Eppure, come si legge sul suo diario, visse con sgomento l’ascesa di Khomeini e dei mullah ai vertici della ribellione; lui pensava che la forza decisiva di tutto il movimento risiedesse nella sinistra del Fronte Nazionale: “E’ strano che i destini di questo paese vengano influenzati da un prete fragile, vecchio e vendicativo che se ne sta seduto in una villetta alla periferia di Parigi, dove mezzo Iran fa la fila per avere udienza”. Harney aveva sottovalutato il trauma che il programma di modernizzazione dello Scià aveva provocato in una società profondamente tradizionalista.
La straordinaria scommessa di Khomeini, ossia instaurare una teocrazia islamica nel corpo di un moderno stato-nazione, diede una spinta decisiva alle tendenze che andavano allora affermandosi in tutto il mondo musulmano. In Arabia saudita, un gruppo armato di fanatici si impossessò della Grande Moschea a La Mecca, e resistette per due settimane prima di venir sterminato. Ne seguirono disordini un po’ dappertutto, per opera di musulmani che attribuivano quel sacrilegio agli americani. In Libia, l’ambasciata Usa di Tripoli venne data alle fiamme; in Pakistan, un attentato all’ambasciata Usa di Islamabad provocò la morte di due americani (dopo quest’ultimo insuccesso, il segretario di Stato Usa Cyrus Vance disse ai cronisti che “a questo punto è difficile dire se dietro tutto questo esista uno schema preordinato”).
Ma niente di tutto questo può essere paragonato alla reazione che stava montando in Afghanistan, dove giovani intellettuali come Ahmed Shah Massoud avevano riportato in auge vecchi testi dell’islamismo classico, quali ad esempio quelli di Sayyid Qutb. Già in rivolta contro il governo comunista, si sarebbero presto scagliati contro le i militari invasori dell’Armata Rossa. Alcuni di loro avrebbero trasformato quella guerra in un’assai più vasta “jihad” globale; tra loro anche un gruppo di “arabi afghani” che avrebbe poi dato vita ad al Qaeda.
E il Papa? L’importanza politica della Santa Sede era stata demolita da Stalin quando disse al ministro degli Esteri francese: “Il Papa? Di quante divisioni dispone?”. Quando Giovanni Paolo II fece la sua storica visita in Polonia nell’estate del 1979, nessuno era così pazzo da prevedere che proprio da quell’evento sarebbe nata l’ispirazione che portò l’anno dopo alla nascita del sindacato libero Solidarnosc, o che quella visita avrebbe fatto da detonatore a una rinascita della società civile in tutta l’Europa centro-orientale, che dieci anni dopo avrebbe portato al crollo del comunismo.
“Senza il Papa polacco, non ci sarebbe stato Solidarnosc e non ci sarebbe stata alcuna rivoluzione in Polonia nel 1980 – ha scritto lo storico Timothy Garton Ash. – Senza Solidarnosc, non ci sarebbe stato il drastico cambio nella politica sovietica rappresentato da Gorbaciov. Senza quel cambiamento, non ci sarebbe stata la rivoluzione di velluto del 1989”.
La chiave della sfida spirituale ai sovietici del Santo Padre fu la non violenza. Durante i nove giorni della sua visita nel giugno del 1979, una cosa come 13 milioni di polacchi si riversarono nelle strade e nelle campagne del paese per salutarlo, in aperta sfida al governo filosovietico che trattava la chiesa cattolica come qualcosa di fastidioso e di poca importanza. “Ci rendemmo conto per la prima volta che ‘noi’ eravamo più numerosi di ‘loro’” ricorda Radoslaw Sikorski nel libro di memorie “Full Circle” (ai tempi giovane anticomunista, attualmente Sikorski è ministro degli Esteri della Polonia democratica). Fu una presa di coscienza decisiva, di cui i dissidenti sparsi per tutto il paese presero debitamente nota.
Gli eventi del 1979 raccontano molte cose sulla natura della controrivoluzione, cose che è importante capire, perché potremmo viverne un’altra proprio adesso. Forse il principale insegnamento risiede nel fatto che, benché i controrivoluzionari sono spesso dei reazionari, non sono però, semplicemente, dei conservatori. I conservatori aspirano a tornare allo status quo ante. I controrivoluzionari hanno capito che i loro avversari rivoluzionari hanno cambiato totalmente le regole del gioco, e che la reazione deve dispiegarsi conseguentemente. Sebbene i filosofi Edmund Burke e Joseph de Maistre rifiutassero la tesi secondo cui la Rivoluzione francese si identificasse con “il progresso”, i programmi da loro elaborati erano talmente radicali e sofisticati da non incontrare sempre il favore dei personaggi che volevano sostenere.
I più accorti controrivoluzionari, per di più, sfruttano felicemente a proprio vantaggio i risultati raggiunti dalle rivoluzioni. Deng capì che, imponendo una severa unità a un paese tradizionalmente frazionato, la dittatura del proletariato avrebbe posto le basi per un boom capitalistico tanto borghese quanto spregiudicato (non era forse vero che nel mondo stava accadendo esattamente il contrario?). La modernizzazione imposta dallo Scià sradicò dalle campagne intere legioni di giovani educatissimi e per lo più disoccupati, per spostarli nelle periferie cittadine. Si venne così a creare una massa di gente disorientata e rancorosa pronta per essere reclutata dal “tradizionalismo” khomeinista.
Quanto alla Thatcher, uno dei suoi oppositori in seno al partito fu lo scrittore Ian Gilmour, che la rimproverò per non aver compreso la natura pragmatica alla base delle azioni di ogni tory, compendiata dalla massima: “Il conservatorismo inglese non è un ‘-ismo’. Non è un’ideologia o una dottrina, o una serie di idee preconcette”. Al contrario, la Thatcher si ispirò al classico paradosso controrivoluzionario: voleva il cambiamento, un cambio radicale, per far tornare le cose come avrebbero dovuto essere.
E riuscì a cambiare tantissimo, proprio come gli altri grandi protagonisti del 1979. Eppure adesso, a trent’anni di distanza, vediamo ancora una volta che anche le idee più affermate e influenti hanno una data di scadenza. Anche le controrivoluzioni, che possono comunque diventare vittime della stasi e del declino. L’attuale regime iraniano assomiglia sempre di più a quel potere che la Rivoluzione voleva distruggere: corrotto, cinico, perlomeno freddo di fronte alla richiesta popolare di riforme, preoccupato innanzitutto del mantenimento del potere. Il “socialismo alla cinese”, il grande ibrido di Deng che mescola economia liberale e repressione politica, si trova in difficoltà verso la crescente richiesta di aria e acqua pulite, di giustizia e certezza del diritto, di maggior libertà e più opportunità. La jihad sunnita scatenatasi in Afghanistan trent’anni or sono resta impastoiata in un utopismo sanguinario, che provoca maggiori vittime tra i musulmani che tra gli infedeli. Il discredito che accompagna il capitalismo globale dopo l’esplosione dell’attuale grande recessione ha messo a nudo tutta la decrepitezza delle controrivoluzioni conservatrici della Thatcher e di Reagan, i cui sostenitori si ritrovano adesso all’angolo dell’arena politica.
Oggi, in quasi tutto il mondo, l’ideologia è ritenuta qualcosa di cui diffidare, e persino il giovane e ottimista neopresidente degli Stati Uniti, Barack Obama, predica cambiamenti avendo costantemente l’accortezza di rifiutare etichette e di presentarsi come un pragmatista. Eppure, se c’è una cosa che l’eredità del 1979 ci insegna, è che la gente è sempre pronta a mobilitarsi per seguire un’idea di futuro migliore, specialmente quando questa idea si traveste da crociata morale contro le forze oscure che minacciano le tradizioni, le antiche identità e “l’ordine naturale” delle cose. Oggi, proprio come nel 1979, tanti sapientoni continuano a parlare con parole appartenenti alle battaglie di ieri – “il ritorno del socialismo”, “il trionfo di Keynes” – anche se i contorni del futuro restano, bene che vada, alquanto nebulosi. Le innumerevoli previsioni di salvezza o dannazione non hanno significato alcuno; l’unica cosa sicura è che saremo colti di sorpresa. L’era in cui viviamo deve moltissimo alla Grande Reazione del ’79. E nessuno la vide arrivare. (fine)
Tratto da Foreign Policy
Tradotto da Enrico De Simone