Quei fantasmi del passato che continuano a tormentare l’Iraq
12 Maggio 2010
Giorni fa una nuova raffica di attacchi bomba ha fatto oltre cento vittime e centinaia di feriti dal nord al sud dell’Iraq, dall’instabile Anbar alla più pacifica Bassora, un attacco simultaneo che dimostra come il network jihadista sia in grado di coordinarsi e rialzare la testa quando è necessario condurre un attacco multiplo. Magari supportato dall’esterno, "Abbiamo informazioni della intelligence, che sono state confermate, sul fatto che negli attentati sono coinvolti almeno due stati arabi", ha commentato il capo della sicurezza nella provincia di Bassora, Ali Ghanim, senza però specificare quali.
Ieri, il presidente iraniano Ahmadinejad ha esortato gli Stati Uniti a ritirare il proprio contingente dall’Iraq (e dall’Afghanistan), "tornate nei vostri confini", ha detto il presidente rivolgendosi americani "Lasciate a Teheran il compito di rendere più sicura la regione". Il ritiro degli americani intano prosegue, il contingente si dimezzerà nei prossimi mesi, lasciando sul campo circa quarantamila uomini. I generali americani sono perplessi, mentre la politica irachena, di una giovane democrazia, occorre ricordarlo, perde terreno, squassata dalle lotte di potere successive alle elezioni dello scorso marzo, che non hanno ancora prodotto un governo ma solo le vecchie divisioni nel fronte sciita. Il rancore, sempre emergente, dei sunniti, i quali sentendosi di nuovo tagliati fuori dalla vita del Paese potrebbero ricadere nella tentazione della guerra civile, è il grande pericolo di questa fase.
Secondo il Dipartimento di Stato Usa, "niente sarà in grado di minare la fiducia degli iracheni nel loro governo e verso le loro forze di sicurezza", un nobile ideale che però dovrebbe tradursi in cifre, e cioè il numero di vittime che gli iracheni dovranno continuare a pagare prima di aver ritrovato la pace. L’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati dice che sono oltre un milione e mezzo le persone scomparse, profughe, o finite nei campi profughi dell’Iraq. Circa mezzo milione di loro vive nelle tendopoli e il governo di Baghdad non muove un dito per risolvere questa situazione, impegnato com’è a far quadrare i conti con la vendita del petrolio.
Le parole del vincitore Allawi sono minacciose: "Questo conflitto non resterà nei confini dell’Iraq, si allargherà nel resto del mondo, non solo nelle nazioni che confinano con la nostra. La comunità internazionale ha lasciato fallire questo Paese". Grande amarezza ma le cose non sono così nere. Un paio di mesi fa, la rivista di orientamento liberal Newsweek riconosceva che, fra alti e bassi, il Presidente Bush aveva portato a termine la sua missione in Iraq. La scorsa settimana, il Generale Petraeus, in un discorso all’American Enterprise Institute, ha ricordato l’importanza del surge che ha rivoluzionato la presenza del contingente americano in Mesopotamia, generando una caduta verticale nel numero di vittime civili e tra i militari americani.
In realtà, se osserviamo l’andamento (funebre) degli attacchi bomba negli otto anni del conflitto, si vede che effetivamente, come spiega Petraeus, dal 2008 ad oggi la situazione è migliorata. Ma dalla fine del 2009 e poi nei primi mesi di quest’anno c’è stata una rescrudescenza di attacchi. Non ai livelli del 2005-2006, ma il fatto è che i cento morti della settimana scorsa non fanno più notizia sui giornali e i media occidentali. Sono attacchi più sporadici, meno ‘giganteschi’ del passato (niente a che vedere con la strage sul ponte di Khadimia, per chi la ricorda), che però ottengono comunque terribili risultati in termini di vite umane. Il surge di Petraeus ha permesso all’Iraq di proseguire nel processo di nation building , nella ricostruzione dello stato e della economia, favorendo la rinascita di una vita politica democratica. L’interrogativo è su cosa accadrà quando le truppe americane saranno andate vita.