Quei maledetti novanta chilometri tra le Montagne e Tripoli
06 Luglio 2011
La situazione sul campo in Libia si può sommariamente riassumere così: Gheddafi è stretto, ma neanche tanto, nella parte occidentale del Paese, a Tripoli, ma non è ancora condannato, tant’è vero che il ministro della Difesa inglese, Liam Fox, ha detto che per rovesciarlo potrebbe essere necessario "un lasso di tempo ancora considerevole". L’avanzata dei ribelli da Est si è fermata a Misurata, dove si continua a combattere, e i ribelli lamentano in genere gli "stop and go" della NATO: l’Alleanza preferirebbe un colpo di mano all’interno dell’inner circle gheddafiano per vincere la guerra, piuttosto che una invasione di Tripoli, una battaglia casa per casa in cui il Rais avrebbe vita facile grazie ai fedelissimi (e agli scudi umani).
C’è però un altro fronte, quello orientale del Paese, dove la situazione sembra differente. Sono le Nafusa Mountains, l’area montagnosa del Paese che si è sollevata fin dall’inizio della rivolta contro il regime, diventando, con il passare dei mesi, il caposaldo dell’insorgenza nell’Ovest. Qui si sono rifugiati i ribelli e i dissidenti che hanno abbandonato Tripoli, i civili che hanno preso le armi contro il Rais, ma è anche la terra dei Berberi, una delle minoranze schiacciate da Gheddafi nel suo progetto di arabizzazione del Paese (i Berberi vivono in tutto il Nordafrica dai tempi dei Romani).
Nell’arco di qualche mese, i ribelli e le tribù delle Nafusa Mountains hanno prima evacuato gran parte del territorio dai civili facendoli passare in Tunisia (si parla di più di 40.000 profughi); hanno occupato i valichi di frontiera per garantirsi le linee di rifornimento dallo stato vicino; poi hanno conquistato, uno alla volta, i centri urbani della zona, estendendo le loro azioni di disturbo anche all’area pianeggiante e semidesertica che divide le montagne da Tripoli.
Anche i ribelli delle montagne criticano la NATO per l’appoggio scarso e lento. Chiedono insistentemente all’Alleanza di bombardare le postazioni di artiglieria pesante e missilistiche dei lealisti (i vecchi Grad sovietici), in modo da potersi muoversi con maggiore rapidità sul terreno. Ma ci sono anche altri combattenti, come racconta la BBC, più circospetti: "Talvolta la NATO fa bene ad agire con cautela", spiega uno dei comandanti impegnato con i suoi uomini nel Jebel Nafusa, che ha perso una mezza dozzina dei suoi uomini negli scontri degli ultimi giorni. Contadini, ingegneri, studenti, malearmati e che si battono contro un esercito molto più forte, senza tirarsi indietro.
"Quando combattiamo in campo aperto siamo più vulnerabili", dice il comandante. Sulle montagne per fortuna le cose cambiano: il terreno li favorisce, si sentono a casa e possono sfruttare al meglio il loro armamento. Il problema sono quei maledetti 90 chilometri che li dividono dalla capitale: se i ribelli prendessero la città di Gharayan la loro discesa verso Tripoli sarebbe assicurata, ma si riproporebbe comunque la necessità di avere una forte copertura da parte della NATO sul terreno scoperto. Il fatto che negli ultimi giorni i francesi abbiano paracadutato armi pesanti (come i lanciarazzi anti-carro Milan) e altri tipi di munizionamenti, dimostra che Parigi si muove ormai in modo autonomo dalla NATO (Russia e Cina dicono forzando la Risoluzione Onu, gli Usa acconsentono), nella speranza che le montagne prendano l’iniziativa costringendo il fronte orientale a sferrare l’attacco finale.
Ma dietro tutte queste teorie resta il fatto che se non si avanza è perché Gheddafi è riuscito, con le truppe che gli sono fedeli, a fermare gli avversari. Non solo. Il Rais può ancora contare su vaste scorte di armi e munizioni nei depositi segreti fatti costruire all’occorrenza in passato, per evitare l’inevitabile. Una struttura stay-behind sul modello di quella che tanto cara è costata agli americani in Iraq, e che provocherebbe un mare di guai alle potenze occidentali impegnate nel conflitto, se il regime venisse rovesciato senza aver preso preventivamente accordi con gli uomini vicini a Gheddafi.
Forse la NATO non è del tutto folle a voler prendere (un altro po’ di) tempo, come potrebbe apparire guardando distrattamente alla situazione sul campo. Ma bisogna anche chiedersi che tipo di guerra sia quella in cui il più forte rallenta e non affonda il colpo per paura di cosa avverrà dopo. Come si dice in romanesco, "stiamo di nuovo a dodici".