Quei piccoli passi. L’America e il processo di pace in Medio Oriente
29 Aprile 2010
All’incirca un mese fa ci siamo chiesti se il processo di pace in Medio Oriente, da un punto di vista israeliano, non fosse fallito. Quindici anni di "concessioni" fatte dallo stato ebraico sono servite ad alienare Israele nella comunità internazionale, com’è accaduto dopo la Guerra di Gaza del 2009. Oggi, con un governo deciso a seguire una strada alternativa, che privilegia la sicurezza e la "pace economica" con i palestinesi, l’idea che si possa arrivare ad un accordo definitivo fra i nemici storici del Medio Oriente appare ancora lontana. Questo discorso sul fallimento del processo di pace vale anche per l’America? Per qualche decennio, infatti, il Medio Oriente è stato una sorta di "religione" per i Presidenti che di volta in volta si succedevano alla Casa Bianca, Nixon, Ford, Carter, Bush Padre, Clinton e Barack Obama, l’ultimo dei "convertiti", che nei primi giorni del suo mandato ha detto di volersi battere "attivamente" e "aggressivamente" per un compromesso. Come ogni religione, scrive Aaron David Miller (un veterano dei negoziatori americani), anche quella del processo di pace vuole dei sacerdoti e dei dogmi, al Dipartimento di Stato come sui giornali, che si scontrano utopisticamente con la realtà.
Oggi parlare del ritiro di Israele ai confini del ’67, del ritorno dei profughi palestinesi, della divisione di Gerusalemme Est, è fuorviante, considerando i problemi sul campo tra le due parti, le ultime tensioni fra Washington e Tel Aviv, la tempestosa situazione in Medio Oriente. E’ vero, l’America è un Paese che grazie ai suoi ideali e alla sua pragmaticità ha saputo ‘conciliare moltitudini’, un Paese che crede fermamente che ‘parlare sia meglio di sparare’. I problemi, anche quelli più insormontabili, possono essere risolti razionalmente. "Si possono sempre trovare delle soluzioni", arrivare a una riconciliazione, ha detto l’inviato di Obama in Medio Oriente, il senatore George Mitchell, che però oggi deve fare i conti con le reazioni muscolari degli israeliani, il no al "congelamento" degli insediamenti, l’Arabia Saudita e i Paesi arabi alla finestra, e i Palestinesi con un’idea tutta loro dei negoziati.
La strategia di Obama in Medio Oriente va quindi interpretata attentamente, essendo, come il Presidente ci ha dimostrato in molti altri casi, insieme pratica e retorica. Con il passare del tempo Obama potrebbe convincersi che l’ideale di una "pace comprensiva" sia rimandabile a un domani. La pace è una probabilità, non una possibilità concreta. E’ un processo, appunto. C’è da mettere in conto i timori dei leader a firmarla; all’orizzonte non si vedono uomini di stato capaci di imporsi sui loro rispettivi parlamenti e sulle opinioni pubbliche, né una reale volontà di arrivare ad un accordo; sembra quasi che sia l’America l’unica disposta a credere in una soluzione del conflitto. E Obama quanto ci crede? Richard N. Haass, il presidente del Council on Foreign Relations, sembra avere scarsa fiducia. In un editoriale apparso sul Wall Street Journal, Haass ha separato nettamente la questione israelo-palestinese dal resto dell’agenda obamiana, scrivendo che esagerare i benefici generati dalla soluzione del conflitto palestinese può distorcere il senso della politica estera degli Stati Uniti: "Annunciare adesso un piano comprensivo di pace rischia di screditare le buone idee, aumentare la frustrazione nel mondo arabo e indebolire la reputazione dell’America". Gli Usa non avranno un Iraq più stabile e democratico se il processo di pace andrà avanti nel solito modo, non vinceranno più facilmente in Afghanistan, né ridurranno il pericolo di altri attentati di Al Qaeda se i palestinesi avessero uno stato. Il mondo arabo rimarrà comunque in preda alle sue paranoie sul complotto sionista e anche l’Iran avrà un’altra recriminazione per dotarsi dell’atomica. (E’ l’Iran la questione decisiva del decennio, non quella palestinese.)
Per quanto l’azione diplomatica di Mitchell in Medio Oriente sarà flessibile e piena di perseveranza non è diretta, almeno nell’immediato, a una soluzione complessiva del conflitto, quanto piuttosto a svolgere un lento lavoro di mediazione che coinvolga, in futuro, e direttamente, le diplomazie israeliana e palestinese. I "proximity talks", i "bridging proposals", il vocabolario misurato della diplomazia obamiana di questi giorni, deriva dalla convinzione che gli Stati Uniti non possono imporre la pace a chi non la vuole. "Non è il momento giusto per introdurre un piano", scrive l’obamiano Center for American Progress, "Annunciare adesso un piano comprensivo potrebbe limitare la capacità di manovra degli Usa rispetto alle due parti in causa". L’ideale resta sempre quello degli ‘Accordi del Venerdì Santo’ in Irlanda del Nord. Dal circuito della "Road map", insomma, non si scappa. Ma sarà una politica fata di piccoli e piccolissimi passi. La politica di chi ha perso in parte la sua "fede".