Quel che la Rivoluzione francese sarebbe potuta essere ma non è stata
17 Maggio 2009
Nella figura e nell’opera di Condorcet si riassume tutto quello che la rivoluzione francese avrebbe potuto essere e non è stato. La fondazione pacifica di un ordine politico libero e stabile, perché basato sui diritti dell’uomo e non sul privilegio di nascita. Nato in una famiglia di antica nobiltà, imbevuto di ideali illuministi, Condorcet non si proponeva di andare verso il popolo, bensì di far uscire la Francia da una condizione di arretratezza politica. Matematico di formazione, da un certo punto in avanti si mise a studiare i classici della politica per arrivare preparato all’appuntamento con le riforme. Ammiratore della nascente democrazia americana, autore di un progetto di costituzione bilanciato, che combinava il principio della sovranità popolare con la più ampia garanzia dei diritti individuali, fu vittima del terrore robespierriano. Per apprezzare a pieno la sua riflessione disponiamo ora di una ampia silloge che presenta al pubblico italiano una panoramica del suo impegno politico e civile (Condorcet, Gli sguardi dell’illuminista. Politica e ragione nell’età dei lumi, a cura di Graziella Durante, pp. 262, € 17,00, Bari, Dedalo, 2009).
Opportunamente, l’antologia presenta anche testi anteriori alla fase rivoluzionaria, che mettono a fuoco possibili interventi riformatori. Esemplare in tal senso è il saggio sulla schiavitù dei negri, scritto nel 1781, in cui si disegna un progetto di soppressione progressiva del lavoro servile nelle colonie. Una riforma che Condorcet non propone solo sulla base di istanze umanitarie, ma che difende facendo valere robusti argomenti di ordine economico. Lo schiavo non lavora con passione e non è interessato al miglioramento delle terre e dei sistemi di coltura come può esserlo un proprietario o un affittuario libero.
Il grosso del volume, però, è dedicato a interventi composti durante gli anni della rivoluzione. Se il contesto della discussione pubblica in cui essi si vanno ad inserire è largamente mutato, non di meno in essi si riscontra una continuità ideale con gli scritti precedenti. Questa si può riassumere nella esigenza di promuovere l’innovazione graduandola accortamente. In altri termini, la fedeltà ai principi si combina sempre, anche quando formula le proposte più avanzate, con una sostanziale esigenza di moderazione. Si veda, ad esempi, l’intervento sul problema degli emigrati, nel quale Condorcet propone un decreto pensato per offrire ampie garanzie a tutti coloro che si erano trasferiti all’estero, senza confondere in un unico fascio i dubbiosi e gl’incerti con gli strenui difensori dell’Ancien régime. Lo stesso discorso si può applicare ad altri scritti di attualità politica. Come quello sull’istruzione pubblica, nel quale l’istanza democratica lo porta a pensare ai mezzi per sradicare l’analfabetismo; oppure a quello sull’ammissione delle donne al voto, dove il matematico francese smonta con inesorabile logica i pregiudizi sulla presunta inferiorità intellettuale e morale della donna.
Riassuntivo dell’atteggiamento mentale condorcettiano è soprattutto uno scritto dedicato al significato della parola "rivoluzionario". Lungi dall’attribuire a questo termine un significato positivo in sé, il matematico francese ne circoscrive attentamente la portata. A suo avviso, «in un buon sistema legislativo le leggi ordinarie conservano la loro forza fino a che non sono revocate; ma le leggi rivoluzionarie, al contrario, devono prevedere il termine della loro durata e cessare di essere in vigore se, in quel momento non sono rinnovate». Scritto nel 1793, l’intervento si può leggere come parte di un disegno politico di più ampia portata. Il tentativo di chiudere la rivoluzione evitando il terrore giacobino. A tal proposito non sarebbe stato inopportuno inserire nell’antologia qualche pagine della relazione introduttiva al progetto di costituzione, dove alla mistica dell’insurrezione coltivata dai montagnardi, si contrappongono le ordinate procedure della revisione costituzionale.
Se la scelta antologica è comunque ben riuscita, lo stesso non si può dire del saggio che la precede. E questo non solo per il taglio euristico adoperato. L’introduzione al volume, infatti, segue un approccio sistematico-concettuale che non sempre aiuta a contestualizzare gli scritti condorcettiani. Ma anche per una ragione più sostanziale. La curatrice tenta di arruolare Condorcet nella schiera dei terzomondisti postmoderni. Da qui i raffronti non troppo pertinenti con la foucaultiana microfisica del potere o con i cosiddetti studi postcoloniali. L’operazione risulta poco fruttuosa per una ragione assai semplice. Condorcet, con la sua fede nel progresso e nell’universalità dei diritti dell’uomo, è lontano mille miglia dal livido nichilismo dagli odierni spregiatori della civiltà occidentale.