Quel confine tra menzogna e verità che Sándor Márai chiama vita
01 Maggio 2012
In una delle sue opere teatrali più note, Vita di Galileo, Bertolt Brecht ha scritto che «chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente». Lo spirito di questa affermazione può essere assunto come il carattere dominante dell’Eredità di Eszter, uno dei più bei romanzi, assieme a Le braci, di Sándor Márai, scrittore e giornalista ungherese, scomparso nel 1989.
Questo volumetto, che ha senz’altro la dignità di un classico della letteratura contemporanea e che difficilmente si dimentica, per la potenza evocativa che mantiene dalla prima all’ultima pagina, racconta con un realismo quasi crudele e con una prosa struggente tutta la ferocia di un rapporto costruito sulla menzogna, sulla affabulazione, sulla mistificazione, sulla cangiante abilità di rendere l’altro uno strumento per l’affermazione dei propri disegni. Dalle sue incalzanti pagine, che vanno molto oltre lo svolgimento di una tormentata storia d’amore tra i due protagonisti, emergono la potenza distruttrice e la devastante energia della menzogna, nefasta anche per chi ne è l’artefice. E ancora, i tanti, troppi, volti della bugia, sempre consapevole, sapientemente orchestrata e perpetrata dal protagonista, con un climax di atteggiamenti, che lo rende una delle figure meglio caratterizzate della letteratura europea contemporanea.
Il Márai di queste pagine, apparentemente molto lontane dalle dense considerazioni contenute nelle Confessioni di un borghese o in quelle dello scritto della resa dei conti e dell’autoanalisi, Terra, terra!, offre, attraverso una storia d’amore, una inedita e forse più immediata formulazione di quella nuova esistenza spirituale che le dittature hanno creato nell’Europa del secolo scorso. Offre, in sostanza, un nuovo volto – un volto più letterario e romanzato, ma non per questo meno coerente o rappresentativo – a quell’apoteosi della menzogna, ininterrottamente utilizzata, assieme alla soppressione di ogni spazio di libertà, dai regimi totalitari del suo secolo, ai quali, non a caso, egli non riesce mai a piegarsi, come attesta la vicenda del suo lungo esilio, anche italiano.
Nello scontro tra l’esistenza di Lajos, piena «di promesse e di iniziative irresponsabili», e quella di Eszter, per lunghi anni «piana e senza scosse», viene scandita la tensione della storia, che oscilla tra una tragicità rassegnata e pesante, e una leggerezza disperata e divertita al contempo. L’amore tra i due – un amore fatto di assenza, di grandi illusioni, di equivoci – fa da sfondo a una lunga, tragica attesa; l’attesa in cui si risolve la storia di Eszter, che aspettando per venti anni il ritorno dell’unico uomo che abbia mai amato (l’uomo che pur dicendo di amarla ha sposato sua sorella), conduce un’esistenza senza energia, senza progetti, alla quale fa da contraltare la potenza ingannatrice, descritta magistralmente da Márai, di un Lajos bugiardo e pericoloso, la cui dissennate menzogne, tuttavia, rimangono, tragicamente, l’unica ragione di vita della donna, la quale, ormai matura, al ritorno dell’amato, raggiunge la consapevolezza della ineluttabilità del compimento di un destino – il destino dell’inganno – al quale sente di dovere definitivamente arrendersi.
Nel ritorno del bugiardo e affabulatore Lajos si compie, infatti, il destino tragico di un rapporto, giacché, in forza di una «legge crudele», «ciò che è iniziato una volta deve essere condotto a termine». E in questa conclusione beffarda e amara, il lettore assiste al trionfo dell’arte di un sapiente maneggio, della ruvida e lucida strategia della menzogna, che spesso stanno alla base dei rapporti infelici e delle esistenze vuote.
Sandor Marai, L’eredità di Eszter, Adelphi 2005, Euro 7.00.