Quel confuso e sperduto mondo perfetto immaginato da Ozpetek

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Quel confuso e sperduto mondo perfetto immaginato da Ozpetek

04 Ottobre 2008

Saranno contenti gli spettatori appartenenti a quella specie ben connotata di fruitori cinematografici, che all’uscita dal cinema dove si sono sciroppati l’ennesima operetta del regista italiano, si ripetono a vicenda “quanto è vero, è proprio tutto così vero”. Nella maggior parte dei casi si tratta di donne, generalmente adulte o mature, accorse in coppia con l’amica a sospirare davanti al drammone lacrimevole e inconcludente che mette in scena amori, delusioni e fallimenti di altre donne che abitano le città italiane (ma di solito, sempre Roma).

Un giorno perfetto è l’ultimo film di Ferzan Ozpetek, è tratto dal sopravvalutato e fortunato romanzo di Melania Mazzucco di un paio di anni fa, ed è il primo film in cui lui si misura con un’idea non sua. E il suo percorso di autore, da quel primo piccolo film perfetto che era Il bagno turco, sembra essere proseguito in discesa, fino all’infelice prodotto di oggi, confuso e sperduto tanto nel registro che nello sviluppo narrativo, e pieno di sciatterie. 

Conforta per una volta che di fronte a un lavoro tanto mediocre la critica (e il pubblico di Venezia che lo ha accolto piuttosto male dalla prima proiezione) abbia finalmente abbandonato piaggerie e cautele, e abbia trovato il coraggio di dire che questo film è proprio brutto, c’è poco da fare.

Inutile raccontarne la trama, a metà tra il film corale di ambientazione metropolitana, in cui peraltro Ozpetek ha dato prove di un certo pregio tanto nelle Fate ignoranti che in Saturno contro, e la cronaca di un dramma della follia annunciato, banalmente dettato dalla passione amorosa e simile alle mille storie di violenza fra le mura di casa che siamo abituati a trovare in cronaca. 
Il romanzo della Mazzucco utilizzava un sapiente montaggio alternato per raccontarci un insieme di quadretti della triste e malmostosa Roma di oggi. Con un campionario estratto dalle diverse classi sociali, nessuna che non risultasse stereotipata – dove, tanto per fare il più rapido esempio, i figli dei ricchi e famosi si chiamano Camilla e quelli dei borgatari Kevin (una sorpresa, una pennellata meno facile, mai).  Erano ritratti così banali e scontati da far venire spesso il dubbio durante la lettura che l’autrice stesse facendo un esercizio di stile prendendo in giro il proprio romanzo, tanto erano discendenti sempre prevedibili della più brutta fiction televisiva italiana. 

Di quelle facili rappresentazioni Ozpetek ha fatto il naturale adattamento per il cinema, e per il suo lavoro di scavo sulla psiche lascia parlare le immagini, sceglie di far parlare quasi soltanto le immagini. Ma trattandosi di tutto un maldestro tentativo di spiegare la famiglia italiana di oggi e i suoi avviliti componenti, queste immagini sono lunghi primi piani l’uno di fronte all’altra, facce dolenti e interminabili silenzi. Non aiutano a intravedere proprio niente delle anime, e in nessun momento regalano quel tocco particolare di sensibilità grazie alla quale di solito Ozpetek sa colpire al cuore.

Gli attori da gran cast chiamati a raccolta sarebbero anche bravi, e ben diretti, non fosse che Isabella Ferrari è un signora chic da lontano un miglio, e malgrado i tentativi di ingrassare, imbruttirsi, involgarirsi, della poveraccia affannata e squattrinata di periferia ha ben poco, e a parte il mascara sbavato e lo sculettamento goffo, al suo personaggio non sa regalare autenticità. I bambini sono brutte macchiette al servizio degli adulti, feticci del mondo innocente che questi vorrebbero vedervi a tutti i costi, per illudersi di coltivare ancora speranze.  Ma tutti sono delusi, sfiduciati, ammosciati.  Con questo forse dando l’unica traccia di aderenza alla realtà che si possa riuscire a trovare nel racconto, su cui incombe una spirale ossessiva di attenzione ridotta solo a questa delusione generale.  Il regista sembra essersi fissato e non essere riuscito a smuovere la storia, di per sé poco avvincente.

La lunga e didascalica scena finale dimostra che alle prese con un soggetto e una sceneggiatura non suoi, Ozpetek si perde del tutto. A dimostrazione che fa parte di quegli autori bravi a maneggiare i propri sogni e le proprie passioni, e meno capaci di interpretare creazioni altrui.  E anche se fosse vero che ha accettato di dirigere questa storia con molte esitazioni, deciso infine perché attratto dalla ineluttabilità di una fissazione malata che può portare a gesti estremi, dimostra ancora una volta che una cosa sono gli autori, un’altra i narratori delle cose che conoscono meglio. Ferzan torni pure a parlarci della sua scanzonata e armoniosa comunità di fate gaie, se gli è più congeniale, ma non prenda in considerazione altri scontati romanzi italiani.