Quel discorso sul lavoro del Card. Martini da non dimenticare
06 Settembre 2012
Tra gli scritti che conservo in disparte dall’odissea dei commenti ai documenti legislativi e di prassi (la mia bibbia professionale) ce n’è uno del cardinale Carlo Maria Martini. Lo conservo, è evidente, non perché costituisca fonte di principi giuridici o normativi, ma a motivo delle tensioni emotive che mi suscitarono la sua lettura. E’ uno scritto del 2002, datato pochi mesi dopo l’uccisione di Marco Biagi per mano armata delle brigate rosse. Riporta l’intervento che l’allora arcivescovo di Milano pronunciò alla veglia dei lavoratori in occasione del 1° maggio nella fabbrica ‘Franco Tosi’ di Legnano, qualche mese prima delle dimissioni dalla cattedra di Sant’Ambrogio rassegnate l’11 luglio seguente.
La scomparsa del cardinale mi ha spinto a riprendere quello scritto, per pura curiosità di rileggere a distanza di un decennio – dieci anni durante i quali il mondo del lavoro ha subìto trasformazioni di varie intensità –, il pensiero dell’allora Pastore della diocesi di Milano. Le sottolineature al testo e gli appunti annotati a margine dell’articolo mi danno ricordo del concetto fondamentale che rilevai nel discorso del cardinale: “critica la flessibilità!”. Chiaramente, per me che mi reputo sostenitore della ‘flessibilità tutelata’, si trattava di una lezione mal gradita!
L’intervento del cardinale aveva lo scopo dichiarato di «suggerire» ai lavoratori «alcune linee» per essere «lavoratori credenti e aiutare a capire il grande progetto di essere adulti nella fede, costruttori di un mondo di pace, portatori di fiducia e speranza, in particolare nel tempo e nel luogo di lavoro». Si fosse limitato a questo, avrei condiviso in pieno il pensiero del cardinale. Invece il suo messaggio andava oltre e, sconfinando il limite pastorale – terreno su cui Martini giocava un ruolo da primato di ermeneuta della Parola – il cardinale finì per trattare labili e opinabili principi di mercato del lavoro.
Il danno della flessibilità, spiegava Martini, risiede nella sua rilettura «in funzione dell’adattabilità a un prodotto, a una produzione nel segno della versatilità e competenza», cosa che inevitabilmente – questa la conseguenza più negativa per il cardinale: «il rovescio della medaglia» – avrebbe portato a favorire sul lavoro soltanto le «persone intelligenti, intuitive, adattabili, sempre giovani e scattanti, sempre aggiornate e vivaci». Conseguenza, tuttavia, non giudicata negativa di per sé dal cardinale; piuttosto umanamente impossibile perché esigente «dedizione totale e monopolizzante al lavoro» da farlo «catalogare sotto l’elenco delle idolatrie deprecate dalla Scrittura». La storia degli ultimi 10 anni ha smentito l’anima ‘giuslavorista’ del cardinale: la disoccupazione ha colpito soprattutto i giovani, e specialmente quelli più istruiti, costretti non a rifiutare posti di lavoro perché troppo onerosi o deprecabili moralmente (cristianamente), ma a far valigie verso lidi esteri dove la flessibilità è addirittura più marcata (c’è pure quella in uscita) eppure il mercato del lavoro funziona meglio del nostro.
Ciò che non il tempo non ha scolorito di quel discorso, invece, è l’esortazione del ‘pastore’ Martini. Passi, del testo, che ancora mi fa piacere leggere e rileggere. Ai lavoratori, sostanzialmente, ricordò «l’importanza di leggere la Scrittura e di nutrirsi di essa», perché «essa ci apre gli occhi e il cuore alla presenza di Gesù risorto e salvatore e perciò ci dà la certezza che il male del mondo può essere vinto, anche nel mondo del lavoro». E perché «dalla Scrittura e dalla preghiera nasce in tutti la chiamata alla responsabilità per tutti, perché ogni persona abbia ciò che è necessario per la propria vita, per la propria libertà e per la propria autonomia».
Chi oggi arruola il cardinale nella schiera dei buoni o dei cattivi non riconosce i dovuti meriti a un prete che, più di tutto, amava essere Pastore di anime; soprattutto non rende giustizia all’opera di Dio e alla sua Chiesa. La centralità della Parola sempre evocata dal cardinale oltrepassa e vince il passo, fallibile e criticabile, dell’agire umano del cardinale Martini ‘giuslavorista’ e ‘politico’. “Non siamo né di Martini né di Ratzinger ma dell’unico corpo del Cristo che è la Chiesa” dovremmo piuttosto asserire con san Paolo della lettera ai Corinzi. Perché come Paolo e Apollo, Martini ha sicuramente piantato e irrigato. Ma, per nostra fortuna, è «solo Dio che fa crescere».