Quel pomeriggio di un giorno da cani targato Black Sabbath

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Quel pomeriggio di un giorno da cani targato Black Sabbath

07 Novembre 2010

Ad Aston, Birmingham, il cielo è sempre grigio e, nonostante la Seconda Guerra Mondiale sia finita da un pezzo, lo scenario di sfacelo che vedi intorno può metterti i brividi. Casermoni di cemento si affastellano disordinati in tutta la grevità architettonica della ricostruzione popolare, mentre gruppi di fabbriche e fabbrichette sputano fumo dai comignoli nascondendo l’orizzonte e rendendo pessima l’aria da respirare. In giro, sulle colate d’asfalto rovinate e piene di buche che solo un ottimista chiamerebbe strade, si vede poca gente, perché i turni alle catene di montaggio sono lunghi e faticosi e, se si esclude una corsa volante ai pochi e malandati pub per una birra nel fine settimana, la gente preferisce rintanarsi tra le quattro mura delle proprie topaie e aspettare che venga di nuovo domani. Senza troppe domande, senza troppe aspettative. La vita, da queste parti, è maledettamente dura e quando provate a chiedere a qualcuno cosa ne pensa della magia e delle speranze che stanno caratterizzando gli anni Sessanta nelle grandi città europee e oltreoceano, rischiate di buscarne un paio di quelli fatti bene. No, non c’è niente da scherzare, la gente ha il didentro più spesso della pelle di un coccodrillo, qui. E non gliene importa un fico secco del proprio io sociale e di tutte quelle panzane sulla necessità di avere uno svago al di fuori del circuito lavoro-famiglia. Questo è quanto.

Cosa può fare, dunque, un ragazzo, diciamo uno che ha superato da poco i tredici o quattordici anni, per trascorrere i suoi pomeriggi? La risposta più facile è: gettarsi in strada e prendersi a botte con qualche pari età. Almeno si può avere un’idea, per quanto vaga, ingenua, di abitare in una specie di Far West postmoderno. Oppure? Oppure, ci si può chiudere in una stanza, soli o con pochi, selezionati amici, e suonare sui gracchianti impianti stereofonici che si ha a disposizione qualche disco. Poco importa che si tratti di jazz, blues, rock o delle meravigliose canzonette di quattro ragazzi di Liverpool. L’importante, anche solo per un attimo, è sentirsi migliaia di chilometri lontano, in un posto dove la quotidianità possa offrire qualcosa di diverso dallo stillicidio dell’anima che sono costretti a sopportare ogni istante delle loro vite.

Tony, Ozzy, Bill e Geezer si trovano davanti a questa scelta. Per un po’, soprattutto i primi due, badano a darsele di santa ragione, ma presto capiscono che botte e litigi non potranno giovargli in nessun modo. Farebbero di tutto per tirarsi fuori da Aston e, pur di non dover sopportare un nine to six con i padroni che sbraitano e i colleghi che sembrano un esercito di lobotomizzati, fanno presto a siglare la pace, gettandosi a capofitto nella musica. Da qualche tempo, ognuno di loro ha deciso di imbracciare uno strumento in prima persona e, quando finalmente nel 1968 si ritrovano tutti e quattro nella stessa sala prove, hanno ormai capito che la sola speranza di vivere una vita diversa da quella dei loro genitori e dei loro amici è affidata alle canzoni che saranno in grado di creare. Gli inizi sono tutt’altro che incoraggianti: se Tony, infatti, è un “mostro” naturale di bravura (nonostante un terribile incidente a due dita della mano destra) e Bill sembra saperci fare discretamente dietro ai tamburi, Geezer e Ozzy sono un mezzo disastro.

Il primo, nato chitarrista, fa una fatica tremenda a mandare a mente i rudimenti di basso più elementari, mentre il secondo, protagonista di una serie di interminabili guai e scorribande teppistiche, sembra mal sopportare quel po’ di disciplina necessaria a fare il cantante di un gruppo che vuole uscire dalle cantine e diventare una band professionista. Tuttavia, come è lecito aspettarsi, l’entusiasmo non manca e dopo le prime uscite live a Birmingham e dintorni, i ragazzi sembrano trovare una loro coesione e, soprattutto, una comune raison d’ être sonora: vogliono essere duri, pesanti. I più duri e pesanti in circolazione.

Hard rock, in quel momento, è ancora una parola dai contorni piuttosto misteriosi in Europa. Nonostante i Cream, i Deep Purple e i Led Zeppelin abbiano scoperto che sposando il blues con la velocità e i distorsori di nuova generazione ci si possa avventurare su sentieri musicali completamente nuovi, tra le nuove leve c’è la netta sensazione che si possano fare ulteriori passi in avanti per irrobustire il proprio sound. Tony, che a causa del già ricordato incidente fa una fatica tremenda a lavorare con tutte le dita della mano destra, sta già da tempo sperimentando una soluzione semplice quanto poco battuta: aggiungi alla nota “tonica” la “dominante”, cioè al primo grado della scala il quinto, e con soli due suoni ottieni un accordo, il power chord (o bicordo), che ti permette, nello stesso tempo, di essere più potente rispetto all’accordo tradizionale e, a prescindere dalla velocità, di rendere imperiosa la presenza della chitarra nella canzone. Unendo a questa tecnica esecutiva un vibrato più marcato rispetto agli altri chitarristi e scegliendo un’accordatura più grave rispetto a quella standard Mi-La-Re-Sol-Si-Mi, quel che ne viene fuori  è una cosa assolutamente rivoluzionaria per i tempi.

Anche gli altri, comunque, non se ne stanno con le mani in mano: Geezer, una volta capito che il basso è uno strumento ben diverso dalla chitarra e che, partendo dalla lezione di Jack Bruce e da Noel Redding, si può sviluppare un discorso di assoluta originalità anche sulle quattro corde, decide che non c’è nulla di male ad attaccarlo ad un distorsore e a suonarlo con le dita della mano incollate al pick up per farlo sentire più forte. Bill, dal canto suo, accantonata la passione per le big band americane e per i raffinati tocchi jazz dei vecchi idoli, bada a pestare il suo kit di percussioni con la massima furia possibile. E Ozzy? Ozzy sa che gli altri stanno facendo passi da gigante e che l’avventura che hanno iniziato a vivere può portarli lontano, talmente lontano da cancellare l’odiata Aston dalle mappe del cuore. Si tratta di lavorare, però. Di rassegnarsi, per così dire, al fatto che anche strillare melodie incerte dietro un microfono è un lavoro che richiede impegno, sacrifici, riflessioni. Ci sta, che farebbe altrimenti? Continuare ad aggiustare suonerie di telefono per qualche lurida sterlina?

Il problema, ora, è il nome. Quando hanno iniziato poteva andare anche quell’assurdo monicker che avevano scelto, The Polka Tulk Blues Band. Ma ora, ora che le cose stanno cominciando ad andare e sembra esserci l’humus giusto per tirar fuori del buono da tutta quella rabbia e quelle frustrazioni patite per anni, bisogna trovarne uno più adatto. E, dunque, si passa a The Earth, magari non il massimo dell’originalità, ma, quantomeno, con una sua dignità di suono, significato. Eppure… no, c’è bisogno di cambiare ancora, dai! Ci vuole qualcosa che suggerisca che loro sono ragazzi arrabbiati, che hanno intenzione di sovvertire le regole. Qualcosa che rimanga in mente ed evochi il magma interiore che ribolle dietro le loro creazioni a sette note. L’idea viene per caso, prendendo spunto dal titolo di un filmaccio horror di serie B (italiano, per di più) con il grande Boris Karloff. Black Sabbath. E così, il 26 agosto del 1969, in uno show al Banklands Youth Club di Workington, si presentano con il nuovo nome di fronte al solito, sparuto drappello di curiosi.

I giorni passano e le date in giro per l’Inghilterra si accumulano. I tipi dell’industria discografica si rendono conto che i tempi sono forse maturi per dare una chance a questi quattro provinciali così oltraggiosi. Il primo a metterci di tasca sua è Tony Hall. 500 sterline, pochi denari anche per la fine del 1969. Ma i Black Sabbath hanno soltanto bisogno di ritrovarsi tra quattro mura insonorizzate con un mixer in funzione e un fonico sveglio. Le loro composizioni, per quanto apparentemente grezze, godono di un equilibrio strumentale e di una definizione di trama difficilmente eguagliabile dai loro contemporanei. Con ogni probabilità, quando mettono piede nei Regent Sound Studios di Tottenahm Court Road, nessuno di loro ha la piena consapevolezza di quanto si apprestano a fare.

L’unica cosa di cui sono sicuri, è che non vogliono perdere tempo. E così mettono a frutto il risicato budget di partenza incidendo a tempo di record l’omonimo full lenght agli albori del 1970 (il 13 febbraio). Inaspettatamente, l’album schizza ai vertici delle classifiche nazionali, issandosi fino all’ottavo posto. I primi a stupirsi di questi eccellenti risultati sono proprio i ragazzi, che però non dimenticano da dove sono partiti e non hanno nessuna intenzione di farvi ritorno. È il momento dello strappo decisivo, lo sanno. Cullarsi sugli allori dopo questo primo successo, potrebbe essere fatale. A parte il tour di promozione al disco, sentono che quel ci si aspetta da loro (e che, soprattutto, vogliono loro stessi) è che facciano un ulteriore, decisivo passo avanti nella definizione di uno stile che li elevi al rango di apripista. È per questo motivo che, tra un concerto e l’altro, non tralasciano mai di fare lunghe, estenuanti jam sessions per cercare di tirar fuori nuove idee. Il modo di lavorare diventa ossessivo: Tony arriva in studio e attacca a suonare. Geezer e Bill gli vanno dietro, mentre Ozzy si sforza di interiorizzare i passaggi più convincenti, cominciando a immaginare una melodia vocale. Si va avanti per ore, giorni se serve, e da un groviglio confuso di riff, distorsioni e passaggi, la gemma prende forma. Il metodo è quello della sottrazione, della compressione.

La scrittura dei pezzi li porta a tagliare, irrobustire e tagliare di nuovo fino a quando non si ritrovano tra le mani un nucleo ritmico potente e sgrezzato con il quale puntare alla canzone definitiva. Una volta ottenuta questa base, si procede ad un meticoloso lavoro di limatura e, in concomitanza, alla elaborazione delle linee vocali e dei testi. Il tutto, ovviamente, a velocità supersonica. Alla fine di questo processo, si entra in cabina d’incisione, si realizzano le varie tracce e si chiede al produttore di elaborarle in un unico sonoro senza fronzoli di consolle.

È così che dopo neanche otto mesi dal loro esordio, il 18 settembre del 1970 (il giorno della morte di Jimi Hendrix, casualmente) i Black Sabbath danno alle stampe la loro nuova fatica. E, se con la prima release si poteva ancora avere la sensazione di “lavori in corso”, stavolta i ragazzi colpiscono definitivamente il segno: rispetto al suo predecessore, infatti,  Paranoid recide definitivamente i già pur tenui legami con la matrice zeppeliniana e con le suggestioni derivate dai Cream, sfaldando la componente heavy blues in un lavoro di ritmica che ha la forza d’urto di un meteorite che trapassa l’atmosfera e si schianta a terra. Se si esclude la bizzarra ballad Planet Caravan, le concessioni alla melodia in chiave anche lontanamente pop stavolta sono ridotte al grado zero. Basta ascoltare l’iniziale War Pigs, per rendersene conto, o la devastante potenza di Iron Man, Electric Funeral e Hand of Doom, per non parlare poi della feroce velocità della canzone che dà il titolo al disco. 

Il suono dei quattro di Aston è diventato una specie di monolite, con una peculiarità che lo rende unico rispetto a tutta la produzione precedente e coeva: la durezza. Proprio quella componente che avevano così curato e ricercato fin dalle prime prove di un paio d’anni prima. I power chords e i vibrati di Tony hanno raggiunto un grado di definizione ed un’intensità mai sentiti prima e la macchina ritmica messa in moto da Geezer e Bill è talmente possente e ossessiva da non lasciare scampo. Se ci aggiungete la “cappa oscura” prodotta dalla voce riverberata e disturbante di Ozzy, capirete perché non sia assolutamente possibile far rientrare la musica di Paranoid in un filone musicale conosciuto, fosse anche l’hard rock inteso nella sua accezione più estrema. È una nuova frontiera, un atto primo. È la nascita dell’heavy metal, una definizione ripescata, con ogni probabilità, da un libro (La macchina Morbida) del “santone” della letteratura beat William Burroughs .

L’album, trainato anche dal singolo omonimo, si fa largo nelle charts fino a raggiungere la prima posizione, catapultando i Black Sabbath nell’olimpo della musica (e aprendo, letteralmente, una nuova miniera di soluzioni e suggestioni musicali dalla quale ancora oggi, a distanza di quasi quarant’anni, migliaia di band, dal metal al rock, dallo stoner allo sludge, dal grunge all’industrial, continuano ad attingere).

Ora, i ragazzi possono finalmente dirlo senza paura: ce l’hanno fatta. Lì fuori, c’è un mondo che li aspetta e un’autostrada di sogni che porta dritta dritta alla gloria. Strumenti in spalla e petto in fuori, danno un definitivo, meraviglioso colpo di spugna al loro passato e salutano.

Bye bye, Aston. A mai più rivederci.

Si va.