Quel viaggio con Tarkovskij  alle fonti della vita

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Quel viaggio con Tarkovskij alle fonti della vita

01 Gennaio 2012

In una camera berlinese confinante con una cucina sedeva Andrei Tarkovskij, uno dei pochi grandi tra i registi cinematografici del mondo. Vengo condotto dall’ambasciatore nel nascondiglio. Avevamo accennato attraverso una terza persona alla nostra comune intenzione di produrre un film tratto dal libro Dalla cronaca dell’Akasha, di Rudolf Steiner. Tarkovskij era pronto a collaborare.

Bisognava tenere conto di una differenza d’opinione. Io ero dell’idea che il film dovesse essere realizzato senza l’aiuto di un’autorità pubblica. Per questo motivo le condizioni di ripresa dovevano essere a basso costo. Tarkovskij, al contrario, aveva in mente che le riprese dovessero avvenire in un luogo distaccato, per esempio nei luoghi d’incrocio tra l’Himalaya e il Karakorum, cioè in territorio tibetano. “Sono strade necessarie”, disse lui. “Senza il luogo giusto non potremmo concepire alcunché.”

"Ci sarebbe nell’Italia del sud”, continuò Tarkovskij, “non lontano da Napoli, una delle ‘fonti’, citata già nell’antichità”. Lì lui era già stato. “L’accesso sarebbe complicato”, proseguì, “poiché sulla fonte è stata eretta una cappella cristiana. All’ingresso ho avuto immediatamente la sensazione che la via conducesse un poco più in profondità, verso quelle fonti che stabiliscono il legame con il regno dei morti. L’intero film ruoterebbe intorno a questa sensazione.” 

“Non serve a nulla filmare quel luogo”, dissi, “neppure se documentassimo la tomba troveremmo qualcosa nel senso di Rudolf Steiner.” “No”, ribatté lui, “ma quella sensazione, se Lei la condivide, ed è sufficiente che Lei me lo faccia rivivere e me lo confermi qui, in questa camera, diventerà la guida sismografica che pilota le immagini. Tarkovskij fece una pausa, si mise ad ascoltare, tranquillo. Nell’incavo e nella marcatura della pelle del suo viso trovò espressione un alto grado di determinazione. Mirava a “dettare” il film. D’altra parte cercava “collaborazione”, ma non era abituato alla collaborazione.

Si mostrò che il rimando di Tarkovskij al Tibet si fondava su un errore di traduzione. Si trattava di certe valli e ghiacciai in Indukush. Lui stesso non li aveva mai visitati. “Per il film ho in mente: un attore protagonista”, dissi, “robusto sia dal punto di vista fisico che spirituale, un agrimensore. Egli è a guida di una spedizione che risulta insufficientemente equipaggiata, sottofinanziata, così come viene annunciato che sarà anche la nostra”.

“Sì”, disse Tarkovskij, “sono davvero valli selvagge e si tratta di un unico e sempre lo stesso fiume che percorre la valle, ma si tratta di un fiume che per lunghi tratti non è visibile. Dalle più alte cime delle montagne conduce umidità, una corrente di molecole acquose e da ciò derivano anzitutto i fiumi marginali Oxus e Jaxartes. Chi si bagni presso di loro prova energia, perché attraversato da eoni. Raccogliere, salvare, nel turbamento non dubitare”, proseguì Tarkovskij, “è questo il senso del terzo trono, che è nell’acqua corrente, che nessuno vede.”

“Gli animali conducono il nostro eroe, l’agrimensore, che non sa ciò che cerca”, disse Tarkovskij. “Vogliono inoltrarsi in quella valle, bramano quel giardino, sebbene gli animali non sappiano nulla, e seguono la corrente invisibile, finché egli non entra nella luce. Si tratta, lo vedo, di una delle più belle valli del mondo.”

“Abbiamo bisogno del visto sovietico”, dissi. “Ed i fiumi dell’antichità si chiamano oggi Amu-Darja e Syr-Darja. Dovremmo avere molta fortuna. Potremmo dirigerci piuttosto verso il castello di Elmau, oppure verso il lago Spitzing e troveremmo in molte superfici di terreno, in molte fonti, in molti animali più significato di quanto non riporti Steiner, piuttosto che affrontare un viaggio nella zona del Pamir dell’Unione Sovietica.”

“Allora dobbiamo scegliere la parte dell’Indukush che appartiene all’India”, rispose Tarkovskij. “Solo la volta celeste sopra quelle secche montagne, alcuni metri quadrati di terreno sui quali nessun uomo mette piede – queste sole sarebbero immagini.” “Siamo verghe da rabdomanti?”, domandai. “Una volta l’uno, una volta l’altro, meglio se in due”, rispose Tarkovskij. “Si deve attendere l’avvento delle immagini.”

Ribattei dicendo che avremmo potuto filmare altrettanto bene ciò che è elementare (il primo irrompere dell’autunno, il tempo più prolungato dell’inverno, le aurore) tra le pietre calcaree delle Alpi o nel mare del lontano nord, piuttosto che durante una spedizione in un’antica terra che né lui né io conoscevamo.

“Dobbiamo osservare tutte le eterogeneità dell’acqua e del suo scorrere”, disse Tarkovskij. Per questo motivo potevamo davvero fissare il primo turno delle riprese qui in Europa. Ero contento d’averlo allontanato dalle strade costose cui avremmo condotto i due team cinematografici con i quali avremmo dovuto girare. Ci accordammo così che ciascuno con il proprio team avrebbe dovuto iniziare già la settimana seguente. L’Istituto per la Progettazione Cinematografica di Ulm avrebbe dovuto mettere a disposizione un fondo per le riprese.

Ricordo Tarkovskij restare fermo nella camera che stava diventando sempre più buia.  Poco tempo dopo la malattia mortale gettò un’ombra sui suoi progetti. Le sue energie vitali mutarono. Divennero più voraci, meno indicate per accogliere ciò che ci si sarebbe potuto attendere. Nel frattempo cambiò anche l’Unione Sovietica. Si sarebbe potuto girare nei luoghi originali. Tarkovskij morì in una clinica parigina.

Alexander Kluge – Le fonti degli dei. Il progetto di film “Dalla cronaca dell’Akasha” con Andrei Tarkovski. Traduzione dal tedesco di Vito Punzi