Quella Cina coperta di sabbia che l’America non riesce più a capire

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Quella Cina coperta di sabbia che l’America non riesce più a capire

22 Marzo 2010

Sono passati pochi mesi da quando Barack Obama, per la prima volta in visita a Pechino, parlava di convergenza di interessi tra Cina e Stati Uniti e di una necessaria collaborazione per rispondere alle sfide del terzo millennio. Alla vigilia del vertice sul clima di Copenaghen, sulla stampa mondiale, si era ipotizzata la nascita di un G2, una sorta di "direttorio globale" con Stati Uniti e Cina chiamati a decidere le sorti del mondo. L’Unione europea guardava già con orrore a questa prospettiva. Da allora, dalla questione dello yuan al caso Google, passando per Copenaghen, non poche scelte della Repubblica popolare hanno preso una direzione opposta agli interessi americani. Obama non è riuscito ad ottenere il sostegno di Pechino nelle questioni internazionali di fondamentale importanza per gli Stati Uniti: dai dossier del nucleare iraniano e nordcoreano all’Afganistan.

A tutto ciò si aggiunga il viaggio del Dalai Lama a Washington e la vendita di armi a Taiwan da parte degli Usa, entrambe interpretate da Pechino come intollerabili interferenze nei suoi affari interni. L’escalation di provocazioni e scontri verbali susseguitisi tra le due superpotenze nel giro di pochi mesi ha ribaltato l’opinione internazionale, allontanando, fino a prossime evoluzioni, la chimera del G2. Sulla stampa americana, si torna a parlare di minaccia cinese. La settimana scorsa, la rivista statunitense Newsweek titolava: "E il mondo della Cina, noi ci stiamo solo vivendo". Qualche settimana prima, il Washington post pubblicava un articolo intitolato "Il pericolo della visione del mondo cinese". Martin Jacques sul New York Times parla dell’inarrestabile ascesa cinese, del corrispondente declino americano e del deterioramento irrimediabile delle relazioni bilaterali. Per alcuni analisti, tra Cina e Stati Uniti, sarebbe in corso una guerra fredda che si giocherebbe sul piano finanziario e monetario. Si dividono tra quelli che annunciano la fine dell’egemonia americana e l’avvento dell’era cinese e gli altri che minimizzano la potenza dell’Impero di mezzo e biasimano l’arroganza cinese.

E cosa ne pensano in Cina? Il premier Wen Jiabao respinge le accuse: "Alcuni dicono che la Cina sia diventata più arrogante e dura. Altri portano avanti la teoria del cosiddetto ‘trionfalismo’ della Cina. La mia coscienza è intatta nonostante le calunnie esterne". Il partito comunista cinese, nei documenti ufficiali, porta avanti la teoria della "convivenza pacifica dei popoli" e della politica di non interferenza. La Repubblica popolare appare impegnata in uno sforzo di "diplomazia globale", fatta di legami sempre più stretti con tutte le aree del mondo. Secondo Liu Janfei, direttore dell’Istituto di strategia internazionale del Partito comunista, Pechino non ha alcuna fretta di sostituire Washington: "La Cina ha bisogno di più tempo per aprirsi e assumere un ruolo di leadership. Questa operazione non può essere compiuta senza l’aiuto di partner economici come gli Usa e l’Europa".

La classe dirigente cinese sembra seguire ancora gli insegnamenti dell’ex presidente Deng Xiaoping: "Osservare tranquillamente, assicurare la nostra posizione, nascondere le nostre capacità e attendere il nostro tempo, essere bravi nel mantenere un  basso profilo e, in nessun caso, rivendicare la leadership”. Se la "convivenza pacifica tra tutti i popoli" sia davvero l’aspirazione di Pechino o se i leader cinesi stiano in realtà preparando un "piano di successione" di basso profilo seguendo gli insegnamenti di Deng non è ancora chiaro, per ora. Quel che è certo è che la Repubblica popolare, oggi come ai tempi di Deng, ha due obiettivi principali: sviluppo e stabilità. Ed è pronta ad abbattere tutti gli ostacoli che appaiono sulla sua strada. Solo mantenendo alto il livello di crescita il Partito comunista può mantenere la sua legittimità politica e mettere al sicuro la stabilità interna.

Se in linea di massima i dirigenti cinesi considerano le relazioni bilaterali con gli Stati Uniti di fondamentale importanza, nella pratica non sono disposti a mettere gli interessi cinesi in secondo piano per assecondare le richieste americane. E quella che Robert J.Samuelson chiama sul Washington Post la visione "China first" del mondo. Partendo da questo presupposto, le scelte di politica estera cinese appaiono, più che provocazioni o prove di forza contro gli Stati Uniti, come scelte egoistiche di conservazione del regime. La Repubblica popolare, per sopravvivere, non può arrestare la crescita economica, che dovrà favorire la creazione di un mercato interno e lo sviluppo delle regioni occidentali che, ospitando le minoranze etniche, sono le più suscettibili di generare il malcontento.

Per crescere, l’economia cinese ha ancora bisogno di fare un forte affidamento sulle esportazioni, anche se ciò significa tenere basso il valore dello yuan e innervosire gli Stati Uniti. Allo stesso modo, l’economia cinese ha un grande bisogno di materie prime, anche se provengono da paesi boicottati dall’Occidente. La scelta di opporsi a delle nuove sanzioni in Iran risponde a questa logica. Oltre al principio di non interferenza e alla tradizionale ostilità cinese verso le sanzioni, di cui la Cina stessa è stata vittima, c’è di più: Pechino è il principale partner economico di Teheran che, a sua volta, è il terzo fornitore di greggio per la Cina.

Per quanto riguarda la vendita di armi a Taiwan, si tratta di una questione che ha sempre creato attriti tra Pechino e Washington. Stesso discorso vale per la questione tibetana e le visite del Dalai Lama. Non ci si sarebbe mai potuto aspettare un rifiuto di Obama di incontrare il leader tibetano, come pure non ci si poteva aspettare una reazione diversa da parte di Pechino. Per quanto concerne il fallimento del vertice di Copenaghen, attribuito dagli analisti alla Cina, si tratta di un fallimento già annunciato e la mancanza di una posizione comune con gli Stati Uniti non è certo una novità. Infine, viene il caso Google: era inevitabile per l’amministrazione Obama schierarsi affianco del gruppo, vuoi per la difesa della libertà di espressione di cui l’America si fa portavoce, vuoi per l’amicizia personale tra il presidente americano e l’amministratore delegato Eric Schmidt.

Si tratta, quindi, di divergenze all’ordine del giorno per due potenze strettamente interdipendenti come Stati Uniti e Cina. Perché si parla ora di minaccia cinese? La crisi economica che ha colpito duramente gli Stati Uniti ha fatto proclamare la fine dell’egemonia americana e un imminente passaggio dello scettro alla Cina, su cui la stessa crisi ha avuto ripercussioni minori. Ma nel mondo attuale, complesso e multipolare, ha ancora senso parlare di guerra fredda e di egemonia mondiale? Se gli Stati Uniti hanno conosciuto una crisi forte e stanno perdendo la propria influenza in alcune aree del mondo come l’est asiatico, è anche vero che la loro presenza in altre aree resta preponderante. Quanto alla Cina, nonostante la straordinaria crescita conosciuta negli ultimi decenni, si tratta pur sempre di un paese in via di sviluppo e che deve ancora affrontare enormi sfide interne. Inoltre, concentrando l’attenzione sulla presunta lotta di egemonia tra Stati Uniti e Cina, si rischia di dimenticare altri attori importanti: c’è chi già punta su un prossimo sorpasso dell’India sulla Cina nella scala delle superpotenze.