Quella della finanza è la nuova guerra mondiale
01 Gennaio 2012
La situazione odierna è stata definita in tutti i modi sbagliati possibili. Emergenza non è perché le emergenze sono limitate nel tempo. Crisi non è perché le crisi sono limitate nello spazio. Si parla anche, avvicinandosi di più alla realtà, di caos geostrategico, di confusione strategica globale e di era psicopolitica. Ma la definizione più corretta è quella di guerra mondiale. Non è la terza, perché ce ne sono già state almeno diciassette: erano mondiali, a modo loro, anche le guerre puniche, le crociate, la guerra dei sette anni, la guerra di Corea, quella fredda, quelle del Golfo e quella globale al terrorismo.
Se non diciottesima guerra mondiale, potremmo chiamarla la guerra del paradosso geopolitico del terzo millennio. Il paradosso sta nel fatto che da una parte il mondo non è mai stato tanto organizzato e gerarchizzato, e dall’altra non è mai stato così caotico. Le ragioni del paradosso vanno ricercate nella globalizzazione, nella crisi finanziaria e soprattutto nella debolezza della leadership statunitense, i cui disimpegni da Afghanistan e Iraq stanno causando aspettative, dinamiche competitive e, in definitiva, più destabilizzazione di quella creata con i disinvolti interventi in quei paesi nel 2001 e nel 2003.
È una guerra asimmetrica, di tutti contro tutti, in cui non è raro (anzi) vedere schierati l’un contro l’altro paesi facenti parte della medesima Alleanza (la NATO) o, ciò che è peggio, della medesima Unione (quella Europea). È una guerra in cui è possibile individuare le classiche caratteristiche delle guerre convenzionali e simmetriche (i motivi, la scintilla scatenante, gli attori, le battaglie, le armi e le munizioni, le vittime e i bollettini di guerra, gli esiti finali e gli effetti collaterali) ma con connotati completamente diversi rispetto a quelli del millennio appena trascorso.
Iniziamo dai motivi del conflitto in corso. Una volta l’obiettivo era il controllo dei territori, ma anche questi erano funzionali a controllarne le risorse e ad occupare nuove basi di partenza, utili per i commerci. In altre parole: l’obiettivo di ieri era in apparenza il territorio ma in definitiva era il denaro. Oggi, che i territori sono già tutti occupati, il motivo delle guerre è semplicemente il controllo dei capitali e di ciò che genera capitale.
In quanto alla scintilla, non c’è stato un attentato di Sarajevo come nel 1914 né un corridoio di Danzica come nel 1939. Stavolta l’anno chiave è il 2008, quando i due maggiori attori geopolitici dell’Occidente, Stati Uniti e Unione Europea, stavano per rinnovare le proprie leadership. Gli USA stavano per eleggere il successore di George W. Bush alla Casa Bianca e l’Europa era alla vigilia della nomina delle alte cariche previste dal trattato di Lisbona. Nella democratica America chi fece la scelta fu il popolo (“We, the People”), nell’elitaria Europa a decidere fu una riunione del Gruppo Bilderberg la sera del 12 novembre 2009, in una cena a porte chiuse nel castello di Hertoginnedal, alle porte di Bruxelles. L’Europa designò un “signor nessuno” di nome Herman Van Rompuy, l’America si affidò a Barack Husseyn Obama, salvo poi accorgersi che quest’ultimo non era il presidente migliore per gestire la crisi finanziaria scatenata dall’esplosione dei Subprime che causò la perdita di 4.100 miliardi di dollari.
Anche gli attori sono cambiati. Non più gli stati nazionali ed i loro eserciti, marine ed aeronautiche, ma la massoneria, le banche d’affari come Goldman Sachs (quella che nel 1992, mentre Romano Prodi era senior advisor, saccheggiò la lira), le agenzie di rating come Moody’s, la Commissione Trilaterale, il Gruppo Bilderberg (a proposito di questi cinque enti nominati in ordine sparso: un certo Mario Monti appartiene a tutti e cinque, ma forse sarà un caso), le borse, le banche, le assicurazioni, le società petrolifere. Tutte forze finanziarie ben più influenti e potenti degli stati nazionali, i quali contano sempre meno (si pensi che la sola banca BNP ha un attivo che ammonta a oltre il doppio del PIL della Francia). Gli stati, dunque, non hanno più il monopolio della violenza, in qualunque modo essa venga esercitata.
Sono mutate anche le battaglie. Sì, certi episodi si svolgono ancora con mezzi militari come la campagna di Libia per il controllo del petrolio e del gas, ma le campagne odierne si combattono in primo luogo con mezzi non militari: si pensi alla campagna di Grecia che ha portato al governo Papademos (uomo di Goldman Sachs come Monti e Draghi) e la campagna d’Italia che ha portato al governo tecnico.
Ovviamente sono cambiate anche le armi e le munizioni. Messe da parte le granate e le bombe atomiche, i razzi e i missili, oggi abbiamo altri tipi di siluri: la speculazione finanziaria mirata allo scopo di creare euforia o panico in moltissimi a seconda della convenienza di pochissimi, le doppie e triple “A” sparate col preciso intento di influenzare, minacciare e destabilizzare, oggi abbiamo l’informatica, gli algoritmi, l’hardware e il software, nonché -importantissime- le armi di “distrazione” di massa come l’imbonimento e la disinformazione. Bisogna convincere la gente che l’attenzione va rivolta al grande-fratello, alle televendite e al festival-di-san-scemo, perché mai come oggi la politica è l’arte di far disinteressare il popolo di ciò che lo riguarda.
Cambiano anche le vittime, che in questa situazione risultano essere la sovranità statale, la democrazia, il popolo. Nemmeno i bollettini di guerra sono come quelli di una volta. Oggi vengono declamati nelle riunioni segrete, nei consigli di amministrazione, nei comunicati finali dei summit. Ma ciò che muta di più sono gli esiti finali del conflitto, visibili nel commissariamento di certi paesi mediante l’instaurazione di governi tecnici che rispondono ai vincitori. In quanto agli effetti collaterali, ce ne sono un’infinità e spaziano dall’aumento delle tasse al malcontento popolare, dal salvataggio delle banche all’affossamento dei risparmiatori, dalla disaffezione per la politica alle occupazioni più o meno simboliche di Uolstrìt, dalla pirateria informatica a quella, molto più antica, marittima.
Cambieranno anche gli annessi e connessi di questa guerra, a cominciare dalle convenzioni di Ginevra. Un tempo questi trattati internazionali arrivavano con un lustro di ritardo, nel senso che dapprima avveniva l’evento esecrabile (dall’uso dei gas asfissianti ai campi di stermino) e qualche anno dopo arrivava la convenzione che vietava le armi chimiche o quella che proibiva il genocidio. Oggi abbiamo imparato la lezione: è inutile sprecare tempo a scrivere convenzioni ritardatarie, tanto vale lasciarle perdere. Allo stesso modo non ci sarà un processo di Norimberga: i vincitori non si processano mai e i vinti saranno troppi. E poi questi ultimi saranno già stati sufficientemente puniti. E non ci sarà nemmeno un trattato di pace, per il semplice motivo che non ci sarà la pace: la confusione strategica globale non ce lo permetterà, un’ulteriore guerra asimmetrica sarà già nata (e forse più di una) e non ci sarà tempo per perdere tempo in queste cose d’altri tempi.