Quella della lobby trumpista in Vaticano è l’ennesima fake news

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Quella della lobby trumpista in Vaticano è l’ennesima fake news

04 Marzo 2017

Orgogliosamente americano, figlio di agricoltori e di origini irlandesi, il cardinale Raymond Leo Burke è finito nelle ultime settimane al centro dell’ennesima spy story che lo vede protagonista insieme al Presidente americano Donald Trump e al  famigerato, come lo dipingono i giornaloni, consigliere del Don, Steve Bannon, frequentatore in passato della Santa Sede. Dopo le trame russe, che vedevano i servizi segreti putiniani dietro l’ascesa di The Donald – o l’affossamento della Clinton, che è lo stesso – ora sarebbe l’inquilino della Casa Bianca a cercare di influenzare nientemeno che il papato. La soffiata arriva da un affidabile organo della stampa liberal americana, il New York Times, tanto affidabile che dopo la vittoria di Trump ha dovuto scusarsi con i suoi elettori per la partigianeria mostrata nella campagna elettorale per le presidenziali USA dell’anno scorso.

Il 7 febbraio il New York Times svela l’arcano: il cardinale Burke, dipinto come la guida della fronda interna alla Chiesa cattolica contro Papa Francesco, sarebbe il cavallo di troia di una sorta di trama transatlantica che vede il prelato del Wisconsin inserito in una rete che da Bannon arriva al Presidente Trump, desiderosa di contrastare l’azione del pontefice. Si sa che, almeno in campagna elettorale, tra l’immobiliarista newyorkese e il successore di Pietro qualche tensione c’è stata. Il muro con il Messico, iniziato nel 1994 da Bill Clinton e cavallo di battaglia del candidato Trump, non piace proprio al pontefice argentino. Da qui a immaginare l’ennesima trama oscura fra americani, estremisti di destra e settori conservatori in Vaticano contro il sol dell’avvenire però sembra ne passi.

Per fortuna ci ha pensato l’editore Cantagalli a rendere accessibile anche al pubblico italiano il pensiero e la biografia di Raymond Leo Burke. “Un cardinale nel cuore della Chiesa. Dialogo con Guillaume d’Alançon” (Edizioni Cantagalli 2016, 117 p.) è il titolo italiano di una densa intervista a tuttotondo sulla vita della Chiesa e le grandi questioni di questo tempo. Nominato vescovo da Giovanni Paolo II nel 1994, Burke è l’erede di tante battaglie in quel lungo e fecondo pontificato segnato dal grande scontro tra quelle che il papa polacco definiva cultura della vita e cultura della morte. Ben lungi dall’essere il capofila del nuovo lefebvrismo – per altro è proprio con Francesco che il riavvicinamento della Fraternità sacerdotale san Pio X a Roma ha subito una rapida accelerata, altra pietra d’inciampo per le ricostruzioni mitologiche dei liberal – il cardinal Burke mostra una aderenza piena al Concilio Vaticano II, letto come insegnava già Benedetto XVI secondo l’ermeneutica della riforma nella continuità, e allo stesso magistero di Francesco.

Non appena si varca la soglia dell’appartamento del cardinal Raymond Leo Burke – nota d’Alançon – lo sguardo è subito attirato da una grande quadro che raffigura Papa Francesco. Secondo il cardinale infatti “la vita della Chiesa si sviluppa in maniera organica” e “i secoli ci trasmettono le verità della fede in una catena ininterrotta, secondo il principio per cui il nuovo germoglia sul tronco dell’antico”. Quella di Burke, più che una Chiesa arroccata in se stessa e paurosa dell’esterno appare piuttosto la Chiesa del Concilio, che incontra la cultura contemporanea non per formalizzare un compromesso con essa ma per testimoniare Cristo e trasformarla. Insomma una Chiesa in uscita, ma restando sempre quel “segno di contraddizione” che anche molti non credenti negli anni hanno iniziato ad apprezzare contro un appiattimento generalizzato del pensiero.

Oggi, è convinto Burke, si moltiplicano i tentativi di per spingere i cattolici ad archiviare la stagione wojitylana del grande impegno per la vita e la famiglia, anche pubblico. A questi tentennamenti il cardinale risponde con il monito del filosofo Edmund Burke: perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all’azione. Inoltre, segnala una tendenza a volere separare la difesa della vita dalle questioni sociali (accoglienza, lotta alla povertà, salute) per mettere da parte la prima in favore delle seconde. Qualcosa di impossibile perché, incalza Burke, senza il riconoscimento della dignità di ogni persona umana non ci può essere nessuna giustizia sociale, il primo sorregge e consente la seconda.

Insomma, una risposta ferma alla Open Society Foundation di George Soros che negli ultimi tempi, secondo DC Leaks, avrebbe sovvenzionato organizzazioni cattoliche per spostare le priorità della Chiesa americana sull’impegno sociale e l’integrazione razziale, a scapito della questione antropologica che urterebbe il finanziere-filantropo internazionale ungherese. Una colonizzazione ideologica della Chiesa che è proprio Francesco a respingere nell’esortazione Amoris Laetitia, punto 251: “è inaccettabile che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il matrimonio fra persone dello stesso sesso”.

Ma allora perché Burke è diventato l’ultima losca figura del fantasmagorico gotha trumpiano? Il cardinale non ama i politici americani che si professano cattolici e poi quando legiferano disattendono la retta coscienza e il diritto naturale. È ben consapevole dei tentativi della passata amministrazione di limitare la libertà religiosa ed educativa negli Stati Uniti, imponendo ai credenti la privatizzazione delle loro convinzioni. Presenzia fino anche a guidare le marce per la vita e la famiglia, le stesse frequentate dal vice di Trump Mike Pence. Considera, con Francesco, cultura dello scarto anche l’aborto e l’eutanasia e a differenza di alcuni ambienti ecclesiali non disdegna di dialogare con chi si dichiara a favore della vita, fossero anche quei diavoli di Trump o di Salvini.

Come se non bastasse, Burke, insieme ai cardinali Caffarra, Brandmüller e Meisner, ha anche sottoscritto i Dubia – questioni formali poste al papa – relativi all’ottavo capitolo di Amoris Laetitia, una richiesta di interpretazione autentica dei passaggi dell’esortazione sulla comunione ai divorziati risposati, quegli stessi che nell’orbe cattolico hanno generato orientamenti spesso opposti. Tanto basta all’universo progressista per mettere Burke in cima alla lista dei proscritti dal nuovo politburo che strumentalizza Francesco come proprio vessillo. Eppure nel discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite è stato il pontefice, utilizzando parole non dissonanti da quelle del cardinal Burke, a ricordare che “la difesa dell’ambiente e la lotta contro l’esclusione esigono il riconoscimento di una legge morale inscritta nella stessa natura umana, che comprende la distinzione naturale tra uomo e donna e il rispetto assoluto della vita in tutte le sue fasi e dimensioni”. Qualcuno storcerebbe il naso.

Certamente Burke e il papa argentino, gesuita catapultato nel pieno dell’Obama’s World e propugnatore di una immagine sobria e di una teologia del popolo e dei poveri, hanno sensibilità assai diverse. Forse possiamo ipotizzare che Papa Bergoglio avrebbe avuto maggior sintonia alla Casa Bianca con un Bernie Sanders, anch’esso già frequentatore del Vaticano ma anche sostenitore di Trump almeno nella scelta di archiviare il TTP. Ecco. Altra pietra d’inciampo per i liberal soprattutto di casa nostra, ma questa è un’altra storia.