Quella di Barletta è una tragedia nella tragedia, il volto scoperto di un disagio nascosto
05 Ottobre 2011
di Mino Cardone
A qualche giorno dal disastro verificatosi a Barletta, con il crollo dell’edificio fra via Roma e via Mura Santo Spirito che ha visto la tragica morte di cinque donne, riemerge anche come un macigno l’antica piaga delle morti sul luogo del lavoro, purtroppo presente in tutto il Paese ma specialmente a Sud. A morire, infatti, sono state donne costrette a lavorare nelle peggiori condizioni, le stesse, del resto, a cui si sottopongono spesso gli stessi titolari dei piccoli laboratori come quello finito sotto le macerie: senza garanzie né tutele, nella consapevolezza, tuttavia, che si tratta pur sempre di lavoro per poter vivere, o più precisamente per sopravvivere, per contribuire con i piccoli guadagni al pagamento dei mutui, alle spese quotidiane per mangiare, per mantenere i figli a scuola o semplicemente per fare benzina. E’ il destino di tanti, è stato il destino di quelle donne costrette a lavorare in un piccolo laboratorio di confezioni, a cucire magliette e tute da ginnastica dalle 8 alle 14 ore giorno, a seconda se arrivavano o meno buone commesse. Il tutto per soli 3euro e 95 centesimi all’ora e per giunta senza contratto.
La storia delle quattro operaie morte sotto le macerie di quella maledetta palazzina, potrebbe essere la storia di tante lavoratici del Sud, costrette a lavorare sottopagate e in condizioni ambientali proibitive. Ancora una volta quella che è stata colpita è la parte più debole della società. Persone che pur di portare a casa pochi spiccioli sono disposte a lavorare per intere giornate a nero, per mandare avanti la famiglia e per prendersi cura dei propri figli, anche in assenza di diritti e di sicurezze. Almeno, questa è la triste realtà che emerge dai primi accertamenti, visto che pare che l’azienda barlettana in questione fosse completamente sconosciuta all’Inps.
Del resto, la notizia purtroppo non stupisce. Situazioni come quella di Barletta, emersa probabilmente soltanto perché legata al tragico crollo, sono sovrapponibili a tante altre realtà esistenti in Puglia. Perché con la crisi del tessile, come anche dei settori dell’abbigliamento e delle calzature, un tempo traino dell’economia pugliese, molte grandi aziende hanno chiuso i battenti, facendo rimanere sul mercato, comunque tra mille difficoltà, solo tante piccole attività sconosciute che effettuano lavori di manifattura a basso costo per grandi marche.
Ora toccherà alla magistratura chiarire le cause del crollo e le responsabilità di questa tragedia annunciata. La Procura dovrà venire anche a capo di queste ennesime morti bianche che avvengono sul nostro territorio, che ci addolorano da un lato e che ci riempiono di rabbia dall’altro perché morire oggi sul lavoro non è una fatalità, ma la conseguenza del non rispetto delle leggi esistenti.
Fa rabbia anche perché, a meno che non accadano tragedie dal forte richiamo mediatico, il più delle volte di queste morti sul lavoro non si sa o si rischia di non sapere mai nulla. Persino laddove cittadini e istituzioni si sono mobilitati, con ogni probabilità, passata l’emozione iniziale si continuerà a morire nell’indifferenza generale. E chissà se saranno mai trovati dei colpevoli o qualcuno che paghi per le proprie responsabilità.
Per i titolari del laboratorio finito sotto le macerie, il prezzo dell’illegalità è già stato il più alto che si potesse pagare: nella tragedia hanno perso la loro figlia, Maria Cinquepalmi, di appena 14 anni, che si trovava per caso nell’edificio crollato, solo perché era uscita con un’ora d’anticipo da scuola per andare al laboratorio dei suoi genitori, che in quel momento erano in ospedale a trovare la nonna di Maria. Insieme alla piccola, sotto le macerie, come oramai sappiamo tutti, hanno perso la loro vita Matilde Doronzo, 32 anni, Tina Ceci, 37 anni, Antonella Zaza, 36 anni e Giovanna Sardaro, 30 anni, operaie votate al sacrificio, che di certo sognavano una vita migliore.