Quella di Romney nel Maine è una vittoria, ma di misura
13 Febbraio 2012
La febbre del sabato 11 febbraio sera ha contagiato mezzo mondo Repubblicano. Mitt Romney è tornato a vincere d’imperio, e in due occasione importanti. La prima sono i caucus dello Stato del Maine, il secondo il CPAC, la Conservative Political Action Conference, ovvero le forche caudine di fronte alle quali ogni uomo pubblico, politico e non, che pensi di avere credito e seguito in quel mondo deve per amore o per forza chinare il capo.
Nel Maine Romney ha vinto con il 39,21% dei suffragi espressi (pari a 2.190 voti) contro il 35,74% di Ron Paul (1.996 voti), il 17,71% di Rick Santorum (989 voti) e il 6,25% di Newt Gingrich (349 voti).
È una consultazione elettorale particolare, quella del Maine, persino “strana”. Non solo perché da quelle parti si celebrano quelle forme di elezioni dette caucus che già per molti sono una stramberia, ma soprattutto perché, a differenza degli altri Stati dell’Unione nordamericana dove invece delle primarie si celebrano appunto i caucus, nel Maine questa forma di consultazione davvero “di base” è durata nientemeno che una settimana. Ma ve le immaginate da noi, che so in Toscana o in Puglia, urne aperte per sette giorni, con gran coro di processi alle intenzioni, dibattiti a cielo aperto, strattoni di ogni e qualsiasi giacchetta, denunce di inquinamenti veri o presunti?
Lassù nel Maine, invece, dove gli Stati Uniti odorano già di Canada, là nell’estrema punta del New England che oltrefrontiera trascolora da una parte in quel “piccolo” New Brunswick che è una delle provincie marittime del Canada ‒ l’unica costituzionalmente bilingue ‒ e dall’altra nell’immenso Quebec/Québec, quei cittadini americani che sanno spingersi più a settentrione di chiunque altro loro connazionale trovano tutto ciò perfettamente normale. Anzi, per loro una settimana di voti è ancora poca. Di per sé, infatti, il Maine mirava a celebrare i propri caucus senz’alcun fretta da gennaio a marzo, una cittadina e un villaggio dopo l’altro, contea dopo contea, e alla fine, sempre senza fretta, pervenire al risultato finale. Ma il Partito Repubblicano ha fatto pressione per concentrare tutti i voti tra il 4 e l’11 febbraio, e così è stato per la maggior parte dei comuni. Non per tutti però. C’è infatti chi ha votato molto prima e chi voterà dopo. Nella contea di Waldo, per esempio, alcune municipalità hanno votato (aprendo la sequenza dei voti del Maine) il 29 gennaio e l’ultima a farlo sarà la cittadina di Hancock, nell’omonima contea, il 3 marzo. Quando sabato 11, poco dopo le 19,00 ora locale, Charles M. Webster, chairman del GOP del Maine, ha dichiarato ufficiale la vittoria di Romney, lo ha fatto basandosi sui risultati calcolati su un po’ più dell’80% dei seggi giacché ne mancavano all’appello ancora 98 (il 16.3%).
Le percentuali guadagnate dai diversi candidati, insomma, varieranno, epperò, a scanso di equivoci, è già stato dichiarato che i risultati delle votazioni effettuate dopo l’11 febbraio – la data che del resto era stata indicata dal GOP come termine ultimo e che liberamente tanto quanto legittimamente diverse municipalità hanno comunque ignorato – non verranno conteggiati per l’esito finale: da qui al 3 marzo muteranno i numeri, ma l’ordine di classifica no (persino se le percentuali dovessero causare un “ribaltone”). Voto inutile, dunque, quello espresso da quelle municipalità del Maine che hanno scelto di votare dopo l’11 febbraio? Scandalo? Vulnus gravissimo nella democrazia e della trasparenza interne del Partito Repubblicano? Per nulla. Per gli americani del Maine la democrazia è cosa così seria che nessuno ne fa un’ideologia: per gli americani del Maine, la democrazia è condizione dell’esercizio del governo e quindi misura della partecipazione popolare; un vero termometro del senso civico, insomma, e della libertà responsabile, persino del patriottismo. A votare la gente del Maine ci va perché è convinta che votare sia cosa buona; nessuno ha paura delle proprie opinioni (tant’è che, come detto, là votano per settimane intere senza temere alcun ricatto), così come nessuno fa del “one man, one vote” un feticcio. Il Maine vota e dice la sua: il GOP (come qualsiasi altro partito, potente, combriccola) faccia come crede.
Del resto, quelli del Maine sono – lo si è detto – dei caucus. Il criterio con cui ai diversi candidati in lizza assegnano i delegati alla Convenzione nazionale del GOP di fine agosto non è di per sé né la matematica né alcun altro automatismo. I caucus del Maine, come tutti gli altri caucus che si celebrano in diversi Stati dell’Unione nordamericana, sono consultivi. Indicano come il popolo Repubblicano la pensa. Fine. Contenti gli elettori, è contento anche il GOP. Tutto il resto è affidato a meccanismi ben più articolati – da cui non sono esenti nemmeno logiche fiduciarie e “percezioni di clima” – del “one man, one vote” , che pure evidentemente non negano.
Tutta un’altra democrazia, insomma, quella americana, dove si vota di continuo in tutte le salse e dove non si avverte mai lo scandalo di cose come i caucus. Un altro esempio palese è il voto di gradimento espresso a Romney dal CPAC 2012.
Il CPAC è un convengo politico annuale che si svolge più o meno sempre di questi tempi ed è la grande passerella del mondo conservatore; anzi di quella parte ampia del mondo conservatore che mantiene un legame organico con il mondo della politica, segnatamente (da quando il GOP si mostra attento al “movimento”) con il Partito Repubblicano. Ciò significa che il personale eletto nelle fila Repubblicane o quello che mira a esserlo ‒ per esempio, come quest’anno, i candidati alla nomination presidenziale ‒ cercano di presenziarvi. Non è un dovere, non è automatico: ma è evidente che, se si corteggia (anche) quell’elettorato, al CPAC bisogna andarci. Al CPAC, infatti, ci sono fondazioni, istituti e leader culturali; s’incontrano gli opinionisti, si tocca con mano la base, ci s’informa e ci si fa vedere. È una grande kermesse dove per tre giorni si discute e si dipanano i temi che appassionano il conservatorismo – argomenti della cronaca, nonché questioni di fondo e di quadro di quell’antica tradizione culturale ‒, si vedono sfilare e intervenire i nomi più noti e i volti più amati, e alla fine si sceglie ‒ così, tanto per non perdere l’abitudine di farlo né di far sentire loro il fiato sul collo ‒ i beniamini politici del momento, consegnando una simbolica palma della vittoria all’uomo che in quel momento incarna meglio i desiderata del “movimento” sul piano politico.
Il CPAC va avanti così dal 1973, allorché venne lanciato dall’American Conservative Union (ACU) e dagli Young Americans for Freedom (YAF), ovvero due veri e propri pezzi di storia del “movimento” conservatore che hanno fatto da imprescindibile cerniera tra il “mondo delle idee” e la politica anche partitica. Furono l’ACE e la YAF a continuare nel “movimento” la fondamentale “discesa in campo” di Barry M. Goldwater (1909-1998) nel 1964, dunque a contribuire massimamente a costruire il “fusionismo” come “realtà di popolo”, a reclutare le giovani leve e a preparare remotamente l’avvento alla Casa Bianca di Ronald Reagan (1911-2004) nel 1980, avvento che suggellò la fine della fase iniziale dello spostamento a destra del GOP e di cui la stagione politica 2012 segna una nuova importante tappa. Oggi il CPAC è organizzato dall’American Conservative Union Foundation con il concorso di più di 100 sigle del “movimento” conservatore statunitense ed è sempre un successo enorme.
Ebbene, ogni anno il suo gesto di chiusura e di arrivederci al successivo è l’elezione del “miglior politico dei destra”. Sabato 11 febbraio, una manciata di minuti prima che giungessero i risultati del Maine, Romney ha vinto anche il CPAC 2012 con il 38% delle preferenze, seguito da Santorum al 31%, da Gingrich al 15% e da Paul al 12%.
Ecco, i conservatori del CPAC pensano (perché questo essi pensano oggi) che Romney possa portarli alla vittoria contro Obama, e non solo: pensano pure che Romney, nel battere Obama, sia un uomo politico di cui ci si può fidare, se s’impegna a non voltare le spalle al mondo conservatore. Potrà, cioè, non essere un true-believer al 100%, ma per il CPAC oggi Romney ha le carte in regola per non deludere né tradire. Non è che per i conservatori del CPAC Santorum, Gingrich o Paul siano meno conservatori di Romney: è che essi pensano che solo Romney ha il vantaggio di poterla spuntare contro Obama. Al CPAC 2012, cioè, sono avvenute due cose che erano nell’aria, che qualcuno ha temuto, ma che giocoforza è pressoché impossibile non avvengano. La prima è che la voglia di battere Obama sta prevalendo ‒ fatti salvi i princìpi irrinunciabili ‒ su ogni altra considerazione; pensando di avere con Romney comunque certe garanzie, i conservatori del CPAC preferiscono lui ad altri loro beniamini. La seconda è che, vero o no che sia, i conservatori del CPAC stanno cominciando a credere proprio a questo: che è Romney l’unico Repubblicano in grado di battere Obama, persino a rischio di non potere mai avere la controprova.
Ora, che anche la Destra “di base” cominci a subire l’“effetto Romney” non cancella però un dato netto, che potrebbe, per i conservatori e per il GOP, farsi persino pericoloso. E cioè che Romney tiene, nonostante tutto, la testa appena sopra il pelo dell’acqua.
La sua vittoria nel Maine ‒ che le modalità dei caucus permettono di paragonare direttamente, dei 10 Stati dove finora si è votato, con l’Iowa, il Colorado, il Minnesota e il Missouri, tutti vinti, sempre clamorosamente seppur a titolo diverso, da Santorum ‒ non è stata eclatante. A lungo è sembrato che Paul ‒ un altro candidato favorito dalla formula caucus ‒ potesse batterlo; Romney lo ha temuto. Paul ha avuto a portata di mano una vittoria importante, che gli è sfuggita di un soffio e per questo motivo ‒ cioè per battere il territorio in ogni suo anfratto, conquistando i voti di persona ‒ ha disertato il CPAC. Il testa a testa tra Romney e Paul anima del resto i CPAC sin dal 2007: nel 2007, nel 2008 e nel 2009 fu Romney ad aggiudicarsene il favore, poi è toccato a Paul nel 2010 e nel 2011, e oggi è ancora la volta di Romney.
Paul è insomma un uomo che il CPAC ha saputo conquistarselo in un biennio obamiano cruciale come il 2010 e il 2011, e oggi se l’è fatto sfuggire perché a esso ha preferito i caucus del Maine. Romney vince invece il CPAC oggi più che altro per la paura che i conservatori hanno di un secondo mandato Obama domani: cioè per gli stessi motivi per cui, in anni non interessati da elezioni presidenziali, hanno preferito Paul per mandare un segnale forte e chiaro ma non rischioso a Obama (del resto, il successo dei Repubblicani al Congresso federale di Washington del novembre 2010 rafforza questa impressione). Vincere il CPAC, peraltro, è importante, ma di per sé non garantisce la vittoria finale nelle primarie: nel 2008 Romney vinse il CPAC e alla fine fu John McCain a ottenere la nomination del GOP ma a perdere poi le elezioni. In passato, solo Reagan nel 1980 e nel 1984 (ma non così nel 1976), e Bush jr. nel 2000 hanno vinto il CPAC ottenendo poi sia la nomination presidenziale del partito sia la Casa Bianca.
Eppoi si guardi alle percentuali ottenute a pochi minuti l’una dall’altra da Romney al CPAC e nel Maine: 39 e 39. Certo, sono percentuali incommensurabili perché relative a numeri assoluti diversi, ma il colpo d’occhio è notevole. Romney è insomma fermo a quel poco più di un terzo di consensi che né tra i conservatori né nel GOP (e le due cose continuano a restare comunque diverse) gli danno un maggioranza granitica, meno ancora qualificata.
Certo, i conservatori lo hanno scelto al CPAC, ma ‒ ha scritto efficacemente Jame Hohmann in un’acuta analisi sul Politico ‒ «ciò non significa che egli sia uscito da questa tre-giorni più forte di come sia entrato» (per il commentatore, a conti fatti, i veri trionfatori sono stati Michele Bachmann, Santorum, Sarah Palin e il senatore della Florida Mark Rubio). Certo nel Maine ‒ dove è attivo un agguerrito universo “Tea Party”, che di suo dovrebbe favorire, come stava per fare, Paul, e dove già in passato sono stati premiati outsider anti-establishment come il miliardario texano Ross Perot, che nel 1992 e nel 1996 corse da indipendente ‒ è stato analogamente votato da una parte dei conservatori. Ma il Maine resta uno Stato del New England dove la media dell’elettorato Repubblicano è “moderato” (se non liberal) e dove la media dell’elettorato tout court pende tipicamente ‒ dall’“era Reagan in poi” ‒ a sinistra.
Nel Maine, insomma, Romney ha preso voti già suoi, e a momenti ne perdeva più di quanti comunque ne abbia persi. Nel 2008, infatti, prese il 51,67% dei suffragi espressi (pari a 2.837 voti) e Paul, giunto terzo, il 18,25% (1.002 voti): il calo dell’uno e l’aumento dell’altro (che ha quasi raddoppiato percentuali e voti popolari) sono evidentissimi. Sta diventando un ritornello.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.