Quella “matta” di Alfonsina che voleva vincere il Giro d’Italia
08 Maggio 2011
"Ehi, ragazzi, toccatemi quel che volete, ma non la macchina!", un giornalista annotava la battuta più famosa di Alfonsina Strada, pronunciata mentre pedala tra ali di folla in delirio che la toccano da tutte le parti. “numero 72: Alfonsin Strada”, nessun errore, gli organizzatori del Giro del ’24 aggiungono la a solo a pochi giorni dall’inizio della corsa. L’unica donna nella storia a gareggiare contro gli uomini è un incredibile affare pubblicitario. In casa la considerano “la matta” e i genitori non mollano neppure quando torna a casa col premio per la sua prima vittoria: un maiale vivo.
Classe 1891, da nubile Alfonsina Morini, partecipa al Giro quasi per caso: le grandi squadre boicottano la corsa, ci sono pochi iscritti e nessun nome grosso. Le ordinano che in albergo potrà lavarsi solo dopo che tutti i ciclisti saranno a letto. Ma viene accettata. Accumula ritardi e pedala anche per 21 ore, solo in due tappe però è ultima. Tiene fino alla L’Aquila-Perugia, quart’ultima frazione, quando rompe il manubrio, lo sostituisce con un manico di scopa di una contadina ma va lo stesso fuori tempo massimo. La giuria però la premia autorizzandola a proseguire senza numero e fuori gara. L’Emilia è tutta per lei. Arrivano a Milano in 33 e lei è trentunesima. Guadagna più di tutti: 50mila lire e l’applauso interminabile del Velodromo Sempione. I soldi li invierà ad un manicomio di Milano dove il marito è ricoverato. Dopo il Giro continua a vivere esibendosi in Spagna e Francia, spettacoli da circo nel cerchio della morte e qualche corsa, poi apre un negozio di bici a Milano. Vanno a salutarla spesso pure Coppi e Girardengo. Fino al 13 settembre 1959.
Quella domenica torna a casa triste da un raduno di bici, nessuno più la riconosce. La sua Moto Guzzi non parte già dalla mattina e lei ricomincia ad armeggiare con la pedalina, cerca con forza di farla andare, più colpi, finché cade a terra esanime. Sulla sua tomba a Cusano Milanino una bicicletta di bronzo ricorda la sua passione di una vita. La stessa di Girardengo, Brunero e Belloni: si scontrano nel Giro del ’25 tutti già vincitori della corsa rosa. La stessa del giovane Binda, solo 23 anni, che li beffa tutti e tre. Inizia quell’anno il suo dominio che si chiuderà con cinque Giri vinti e tante altre corse, eguagliato solo da Merckx e Coppi. Italiano, vive in Francia: “Quando, a 18 anni, sono andato a Nizza a fare lo stuccatore, volevo essere un bravo decoratore, possibilmente il migliore. Se non avessi corso in bicicletta, credo ci sarei riuscito”. Soffre molto nelle prime tappe, abituato com’è alle strade francesi sempre asfaltate. Poi nella Roma-Napoli il Gira fora, Binda lo attacca, guadagna 5 minuti e il piemontese non lo riprende più. Deve “accontentarsi” di quattro vittorie di tappa, tra cui l’epica Sulmona-Arezzo, quasi 380 km di strade sterrate.
Alfonsina Strada, correrà il Giro d’Italia nel 1924
La maglia nera. Al Giro del ’26 partecipa tra gli indipendenti, gli isolati senza squadra, tale Giuseppe Ticozzelli. Calciatore del Casale ma anche di Spal e Nazionale, totalmente allo sbaraglio, arriva alla partenza sempre in ritardo e in taxi. Indossa la divisa del Casale tutta nera con una stella bianca, pedala col gruppo solo pochi chilometri e si getta in folli fughe senza senso. Quasi subito stremato, si ferma sempre a ingozzarsi e bere con tutta calma in qualche osteria. Al diavolo la tappa e i tempi. E’ dai suoi clamorosi ritardi che nascerà la leggenda della maglia nera dell’ultimo in classifica. Nata come sfottò, darà vita a furiose battaglie tra Sante Carollo (che la vince nel 49’) e Luigi Malabrocca (46’ e 47’). L’obiettivo era perdere più tempo possibile, nascondersi in bar e fienili, persino bucarsi loro stessi le ruote. La classe e l’astuzia stava tutta nell’arrivare sempre al traguardo entro il tempo massimo e senza non farsi scoprire dall’altro.
“Faccio l’amore una volta l’anno” (Alfredo Binda, senza dubbi, a chi gli chiedeva il segreto dei suoi successi). Il triennio ’26-’29 è suo incontrastato dominio. Sono i primi giri con un’impostazione di percorso simile a quella di oggi. Nel ’26 vince dodici tappe su quindici, addirittura a Napoli tagliato il traguardo chiede una tromba alla banda musicale e la suona a lungo per dar prova di non essersi neppure stancato. In corsa per darsi forza beve in media 26 uova fresche delle galline di casa sua. Al Giro di Lombardia qualche mese prima, s’invola a 160 km dal traguardo e arriva a Milano con mezz’ora sul suo primo, povero inseguitore. Premiazione, interviste, saluti, poi doccia in albergo; prende la valigia e sale sul treno che lo riporta a Cittiglio. E’ al finestrino quando da un cavalcavia vede passare gli ultimi corridori ancora in gara. Stravince pure nel ’28 e nel ’29. Quando viene accolto dai fischi all’ingresso dell’Arena di Milano e si rifugia nel furgone della sua squadra in lacrime. Le stesse di Belloni, che nella Formia-Roma all’inseguimento dei battistrada sulla salita di Ferentino investe e uccide un bambino che gli taglia la strada. Per la disperazione si ritira dalla corsa.
Alfredo Binda con la maglia iridata di Campione del mondo
“La sua manifesta superiorità stufava, rendendo frigida la corsa”. Nel Giro del 1930 gli organizzatori pensano a una formula a inviti e si accordano col patròn della Legnano Colombo perché pagasse a Binda 22.500 lire, l’intero montepremi del vincitore, pur di non farlo partecipare. Con lui in gara gli altri ciclisti avrebbero disertato. E’ il primo Giro ad arrivare in Sicilia e dell’esordio di Learco Guerra. Sull’Etna un lapillo colpisce Luigi Marchisio che corre metà Giro con un occhio bendato per una lesione al bulbo oculare. La maglia rosa del capoclassifica arriverà l’anno successivo da un’idea del fondatore e direttore Armando Cougnet. Il primo a indossarla è Learco Guerra. La Eiar comincia a seguire il Giro nel ’32 filmando i primi arrivi e nel ’33 torna alla vittoria Binda, che vince anche la classifica del Gran premio della montagna nata quell’anno (la maglia verde arriverà nel ’77). E’ il 10 giugno 1934 invece, quando in pieno periodo fascista l’Arena di Milano accoglie l’ingresso di Giuseppe Olmo, vincitore del Giro, con un boato. Non è rivolto solo a lui. Proprio in quel momento gli altoparlanti danno notizia del 2-1 al 95’ di Schiavio contro la Cecoslovacchia: Olmo vince il Giro, l’Italia il suo primo mondiale di calcio.
Quanta strada nei miei sandali/quanta ne avrà fatta Bartali (Paolo Conte, Bartali). “Allenamenti compresi, più di seicentomila chilometri”. Gare? “Novecento. Una più, una meno”. Vittorie? “Centosettanta, di cui centoventisette da professionista. Purtroppo, mai un campionato del mondo”, (Roberto Gervaso, Il Messaggero, 17/05/1997). Il ragazzotto di Ponte a Ema, tra Firenze e Bagno a Ripoli, irrompe nel 1935 al Giro. L’anno delle Dolomiti. Il vecchio Giuseppe Olmo in montagna patisce una tremenda crisi tanto da chiedere che gli venga sostituita la maglia tricolore di campione d’Italia in carica. Non si sente degno di onorarla. Ginettaccio invece in montagna vola e vince. I Giri del ’36 e del ’37, il Tour nel ’38 e molto ancora nel dopoguerra. “Sono solo Gino Bartali, un uomo come tanti, fedele a se stesso, devoto alla Madonna e a Santa Teresa di Lisieux”. Perché i Bartali non nascono più? «Perché le madri non allattano più i figli per diciotto mesi” (ibidem).
Continua…