Quella mobilità obbligatoria per non restare al palo
13 Giugno 2014
Uno dei temi più controversi tra gli interventi proposti dal ministro Madia per la riforma della Pubblica Amministrazione è la mobilità obbligatoria, che con quell’aggettivo accanto rende il sostantivo particolarmente minaccioso agli occhi dei dipendenti pubblici. Dai 100 chilometri massimo ventilati dai giornali si è poi passati, sembra ufficialmente, a 50, anche se per certi ambienti sindacali non c’è verso.
"Non c’è più bisogno di mobilità, basta comandare il lavoratore in servizio e quello dovrà andare. E chissà che un giorno vada là e un altro giorno qua. Una sorta di lavoratore pellegrino", dicono alla Cgil. Sappiamo però e non da oggi che capitale e lavoro funzionano esattamente così, muovendosi. Lo sanno soprattutto i giovani, gli autonomi, le partite Iva, i piccoli e medi imprenditori che per lavorare devono girare, spostarsi, fare cose, chiudere affari.
Si potrà contestare un modello economico come quello della globalizzazione, dove mobilità e tempo di lavoro sono esplosi imponendo a tanti condizioni sconosciute in passato, con altrettante ricadute nella vita privata: ma è pur sempre da questi movimenti e flussi che si genera e si tara la modernità economica di un Paese. Può non piacere ma funziona così, più all’estero che in Italia a dire la verità: si veda come fioriscono altrove le comunità degli expats e come altri Stati sappiano coltivarle meglio di noi.
Se questo è lo scenario generale di riferimento non si capisce perché si dovrebbe tenere fermi, inchiodati al loro posto di lavoro, i dipendenti, pubblici o privati. La maggiore mobilità è una buona base di partenza per riformare la Pa ma l’obiettivo finale è unificare lavoro pubblico e privato, nuovi e vecchi tempi e modi di lavoro, nella consapevolezza che chi si ferma aspettando è perduto.