Quelle sacche di resistenza che bloccano la riforma della giustizia
17 Ottobre 2011
Come è ormai noto l’assessore alla Sicurezza di Napoli, Giuseppe Narducci, magistrato in aspettativa, è finito sotto procedimento disciplinare. Una misura decisa dal collegio dei probiviri dell’Associazione nazionale magistrati, basata su quella che viene definita un’anomalia deontologica: e cioè la possibilità per un magistrato di accettare incarichi amministrativi nella stessa città dove ha svolto funzioni d’indagine. Narducci, dunque, dovrà presentarsi di fronte al ai probiviri il 22 novembre prossimo. Già nel giugno scorso in molti, tra cui il Capo dello Stato, avevano criticato la scelta dell’ex pm di entrare nell’esecutivo comunale di De Magistris. Critiche rispedite al mittente da Narducci, senza la minima manifestazione di ripensamento né disponibilità a mettere in discussione l’opportunità di tale incarico.
Se questi sono i fatti brevemente riassunti, più complessa e articolata è la questione che si cela dietro il caso Narducci. Due i piani su cui si sviluppa: da una parte, la condizione della magistratura italiana e il rapporto tra questa e la politica, dall’altra lo scontro sempre più frequente tra le toghe. Per farsi un’idea, quantomeno sommaria, del mondo della magistratura e delle sue lotte interne, è utile leggere il libro Magistrati. L’ultracasta (Grandi Passaggi Bompiani), scritto dal giornalista de L’Espresso Stefano Liviadotti. I dati riportati descrivono un quadro a partire dal quale non è difficile trarre le conseguenze: l’Anm, infatti, "associa 93 magistrati su 100 e deve il suo potere al ruolo di azionista di maggioranza del Csm, cioè dell’organo da cui dipende per intero la carriera delle toghe". Già questo è significativo, ma Liviadotti prosegue descrivendo come funzionano i meccanismi interni: "Il Csm, grazie a un sistema elettorale bloccato, è dominato dalle correnti politiche, che si dividono le poltrone in barba allo stesso voto della base e riescono ad imporre i loro veti al governo.”. Dunque, la politica finisce per governare questo sistema, anche se per definizione dovrebbe restarne totalmente fuori. Del resto, già Giovanni Falcone, il 5 novembre 1988, ebbe modo di dire che "le correnti dell’Anm si sono trasformate in macchine elettorali" e che "la caccia esasperata e ricorrente al voto del singolo magistrato e la difesa corporativa della categoria sono divenute le attività più significative della vita associativa". Al punto da far scadere il dibattito ideologico "a livelli intollerabili”.
In altre parole, secondo Liviadotti "la prima balla colossale è scritta già nell’articolo 2 dello statuto dell’Anm", dove all’ultimo comma si stabilisce che l’associazione non ha carattere politico. La realtà è ben diversa ed è che i magistrati fanno politica e questo va a riflettersi, in maniera inevitabile, sul funzionamento della giustizia. Il tutto senza ripercussioni sulla carriera dei pm. Infatti, prosegue Liviadotti "la sezione disciplinare è il binario morto del Csm, una fabbrica di assoluzioni con sentenze al limite del grottesco. Così le toghe hanno il 2,1 di possibilità su 100 di incappare in una sanzione. Che comunque, anche nei casi più gravi, è sempre all’acqua di rose". Tradotto: ciascuno ha il suo santo protettore al Csm.
E se da un lato ci sono meccanismi che favoriscono ora conflittualità, ora complicità all’interno della magistratura a danno dell’efficienza, gli stessi meccanismi tendono a generare conflittualità con il potere politico. Come è stato scritto da Giovanni Fasanella e Giovanni Pellegrino ne Il morbo giustizialista c’è la "tendenza a risolvere per via giudiziaria la complessità dei problemi della politica, ereditati in gran parte da una storia anomala che ha prodotto vere e proprie patologie. E si potrebbe aggiungere: attribuendo un aprioristico favore ai magistrati dell’accusa, i pubblici ministeri. Figure sempre più mitizzate, tanto da essere percepite nell’immaginario collettivo come giustizieri senza macchia e senza paura, custodi dei valori etici di una "società civile" (il popolo) idealizzata e contrapposta ad una politica corrotta. In definitiva – sempre secondo Fasanella e Pellegrino – viene innalzato al rango di eroe popolare l’accusatore che punta più in alto. Che poi l’accusa si riveli fondata o meno, è del tutto irrilevante".
Un’analisi di tal fatta era stata prospettata anche da Vincenzo Caianiello, magistrato e presidente emerito della Corte costituzionale, il quale ha sostenuto in più occasioni la necessità di riformare la giustizia tenendo conto del fatto che la magistratura deve essere un Ordine e non Potere-Corpo separato e, soprattutto, rispettando determinati parametri. In primis, quello dell’apoliticità della funzione dei giudici, come anche del divieto di iscrizione a partiti politici e di partecipazione o collegamento ad ogni attività di questi ultimi. Tra i parametri figura anche la natura esclusivamente amministrativa delle funzioni del Csm, quelle elencate nell’art. 105 della Costituzione, e il divieto imposto all’organo di occuparsi di argomenti diversi da quelli scritti in Costituzione. A ciò si somma la necessità di rompere il cordone ombelicale del Csm con le correnti di potere del sindacato – tornando al vecchio sistema elettorale uninominale, semmai integrato dal sorteggio – e la netta separazione delle carriere dei magistrati di accusa dai giudici, purché entrambe amministrate dal Csm in base alla legge ordinaria. Ulteriore parametro da rispettare, la responsabilità civile del pubblico ministero del processo penale e, infine, una legge dello Stato che disciplini i criteri di priorità dell’esercizio dell’azione penale. Tutto questo a Costituzione invariata.
In prospettiva, Caianiello proponeva dunque una "revisione della Costituzione limitata alla sola modifica della composizione del Csm, per rendere identica la proporzione interna dei suoi componenti e le loro fonti di provvista (un terzo nominato dal Presidente della Repubblica; un terzo dal Parlamento; un terzo dai magistrati) alla composizione della Corte costituzionale, che è l’unico organo che ha funzionato bene in cinquant’anni di Repubblica proprio per questa varietà di fonti di nomina". Ciò "insieme alla istituzione di una Corte disciplinare indipendente separata dal Csm composta da personalità-garanti di altissimo profilo per giudicare il comportamento dei magistrati".
A fronte di tante buone proposte, purtroppo negli anni ogni tentativo di riformare la giustizia è risultato vano, a causa sia della forte opposizione delle toghe sia della resistenza opposta da una parte del mondo politico. Un esperimento di riforma interessante fu tentato nel 1997, con la Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, dove si parlò di separazione del Csm in due sezioni, una per i giudici, l’altra per i magistrati del pubblico ministero; di istituzione della Corte di giustizia della magistratura per i provvedimenti disciplinari; della necessità di un concorso per passare da un ruolo all’altro e di una riserva di legge per stabilire l’affettivo esercizio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Poi, però, come tutti sanno, la Bicamerale cadde e non portò mai a termine il suo compito. Ancora oggi, ogni volta che il Governo prova a riformare la giustizia e a sciogliere una volta per tutte le contraddizioni interne al sistema, c’è una incredibile levata di scudi. E tra quelli che si oppongono chi c’è? Lo stesso Giuseppe Narducci, il quale, in una dirompente intervista resa a Repubblica tv si scaglia contro la riforma costituzionale proposta dal Governo, sostenendo che con tale riforma ci sarebbe una maggiore difficoltà per i magistrati a svolgere il loro lavoro. Ecco che il cerchio si chiude ed è tutto più chiaro, purtroppo.