Quell’esercito invasore che esportò in Italia la parola “Nazione”
27 Marzo 2011
Premessa. Il 17 marzo 1861 un’assemblea convocata a Torino dalle regioni della penisola che alla data erano state raggiunte dal dominio politico e militare del Regno di Sardegna – e dunque con la sola esclusione delle Tre Venezie e di ciò che restava dello Stato Ponitificio – proclamò Vittorio Emanuele di Savoia re d’Italia. E così quel consesso implicitamente si riconosceva e si dichiarava primo parlamento nazionale italiano. Come si vede, nel 2011 cade il centocinquantesimo anniversario della nostra unificazione. È una ricorrenza suggestiva e non può essere disattesa. In effetti si stanno infittendo a questo proposito le riflessioni, di indole e di ispirazione ben diversa, talora addirittura di contenuto discorde. Ne risulta una rievocazione ricca e complessa, al servizio (almeno nelle intenzioni) di una approfondita e più adeguata comprensione dell’intera vicenda. In tale multiloquio composito e variegato spero possa aver posto anche il mio modesto contributo. Mi lusingo anzi che ci sia qualcuno che trovi un certo interesse e una certa utilità in queste pagine, che sono offerte con animo semplice a titolo del tutto personale.
L’ARRIVO DEI FRANCESI. Tra le date, che potrebbero essere assunte a segnare per la nostra penisola l’inizio dell’età contemporanea, quella che mi sembra più utile e chiarificante è il 1796: l’anno dell’ingresso nelle nostre regioni delle truppe guidate dal generale Bonaparte.
Un’invasione di nuovo genere. Di eserciti invasori e di estranee dominazioni si possedeva da noi ormai una lunga e esperienza. Ci si dovette però avvedere ben presto che stavolta era qualcosa di inedito, senza paragonabili precedenti. Quando i soldati francesi entrano in Bologna il 19 giugno 1796, si affrettano – anche qui come dappertutto – a infliggere alla città il versamento di una somma enorme in denaro, in oro, in argento, in natura, quale contribuzione alle spese di guerra. Il che – a parte l’entità del prelievo, che sconvolse la nostra economia – era un guaio che non giungeva inaspettato: quale che fosse la loro divisa, gli eserciti invasori si erano sempre fatti compensare per il beneficio, per la verità non richiesto, della loro presenza; quando non si dedicavano semplicemente al saccheggio.
Un “esercito di ladri”. Stavolta però ci furono delle novità rimarchevoli. Prima di allora i conquistatori – spagnoli o austriaci che fossero – non si erano mai permessi di derubarci delle nostre opere d’arte. Cosa che i francesi fecero invece sistematicamente. Solo da Bologna asportarono trentun dipinti dei più rinomati maestri (quali il Guercino, i Carracci, Guido Reni, Raffaello, ecc.); e allo stesso modo si comportarono in tutte le altre città*. Per quel che se ne sa, nessuna voce di vergogna o di rammarico è giunta poi fino a noi dalla Francia per questo odioso comportamento.
“Ladri” ma forieri di novità. C’era però un’altra novità: quell’esercito di “ladri” era anche, per così dire, un esercito di “missionari”. Nascosto negli zaini di quei soldati, entrò in Italia l’annuncio di un radicale capovolgimento delle regole di convivenza sociale e l’impulso a intraprendere quel cammino che, discontinuo e travagliato, avrebbe di fatto condotto i nostri popoli alle moderne democrazie.**
Un impatto traumatico. Di più, quei soldati e quelle bandiere richiamavano oggettivamente tutto ciò che in Francia si era compiuto a partire dal 1789 e soprattutto dal 1793: in campo religioso, l’introduzione del culto (astratto e cerebrale) della Ragione prima e poi quello (senza alcuna risonanza nell’animo popolare dell’Essere Supremo; nel campo dell’amministrazione della giustizia, la legislazione sui “sospetti” (e segnatamente la terribile legge del 22 aprile 1794), che aveva consentito di arrestare e sopprimere senza procedure giuridiche migliaia e migliaia di persone innocenti; e, tra le decisioni politiche, il regicidio e il genocidio vandeano. L’impatto con la realtà italiana non poteva essere più traumatico, sicché è abbastanza plausibile far risalire a quell’evento l’avvio di un’altra e ben diversa epoca della nostra storia.
Un principio fecondo. In quegli zaini era idealmente contenuto anche un asserto particolarmente significativo proprio per la riflessione che stiamo svolgendo: “Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione”. Così era stato sancito dall’articolo 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, formulata a Parigi nel 1789 dall’Assemblea Costituente. Non si fatica a immaginare quanto dovette apparire perturbante e innovativa questa inaudita concezione circa l’origine dell’autorità e del potere, e di conseguenza circa le condizioni del loro legittimo esercizio. Prima ancora, quel principio – supponendo l’esistenza della “Nazione” –metteva in evidenza un elemento che nel discorso sociale e politico da noi era rimasto implicito e confuso. In Francia, dopo secoli di progressiva centralizzazione, non c’erano dubbi a questo riguardo; ma si poteva parlare di una “Nazione italiana”? A togliere ogni perplessità, bisognava che anche nella nostra penisola si seguisse, sia pure in ritardo, il modello transalpino e si superasse la pluralità degli Stati. Così il tema dell’unità d’Italia cominciò a intrigare le menti; e la voglia di conseguirla affascinò a poco a poco molti cuori.
In seguito, una volta conclusa l’avventura napoleonica e pacificato il marasma, il desiderio della unificazione – suscitato di fatto da un intervento straniero – si sarebbe naturalmente disposato a quello della indipendenza d’Italia. E poté prendere il via il processo “risorgimentale”.
* Dopo il 1815 furono poi in larga parte restituiti, per l’azione rivendicatrice di Antonio Canova.
** Non è detto però che alla democrazia gli europei non sarebbero potuti arrivare anche su strade meno insanguinate, meno sconvolgenti, meno spiritualmente costose, di quelle indicate da una ideologia eversiva e radicalmente anticristiana. Come di fatto è avvenuto per le genti anglosassoni.
Tratto da Giacomo Biffi, L’Unità d’Italia. Centocinquant’anni 1861-2011, per gentile concessione dell’Editore Cantagalli.