Quell’Europa frantumata dagli algoritmi finanziari e il ritorno della politica delle Nazioni
04 Novembre 2017
Negli stati dell’Ue i sistemi politici stanno rapidamente cambiando forma: come mostrano i risultati elettorali degli ultimi due/tre anni, l’assetto tradizionale, basato su alcuni partiti-sistema (socialisti, liberali, popolari/conservatori) capaci in varie combinazioni di fare stabilmente maggioranza, non tiene più e dilagano sperimentazioni inedite, novità politiche, divergenze da nazione a nazione negli esiti di governo.
Emergono quattro tendenze principali. La prima riguarda il declino dei partiti socialisti: in alcuni paesi tocca punte drammatiche e lascia spazio – spesso ampio – a forze radicali. In Grecia, nei Paesi Bassi, in Francia, in Slovenia e, fuori euro, nella Repubblica Ceca e in Polonia (qui non entrano neppure in Parlamento) i socialisti scendono sotto l’8% superati dall’estrema sinistra che a Parigi, con Mélenchon, prende addirittura il triplo dei loro voti e ad Atene, con Tsipras, diventa il primo partito. In Germania e in Spagna si attestano poco sopra il 20% segnando il peggiore risultato del dopoguerra e cedendo molti elettori agli ex comunisti della Linke e, soprattutto, alla sinistra modernizzante e giovanile di Podemos. L’Italia, con il voto della prossima primavera, potrebbe facilmente aggiungersi alla lista. Scadenti prove di governo (Francia con Hollande, Grecia con Papandreou, Cechia) o grandi coalizioni dove sbiadisce l’apporto socialista (Germania, Paesi Bassi) appaiono come i motivi prossimi dei tracolli. In Gran Bretagna invece va in scena l’unica storia di successo: il partito laburista, finito con gli eredi di Blair in una crisi analoga a quella dei fratelli continentali, lascia le suggestioni liberali, elegge a leader un old leftist come Corbyn, riscopre la tradizione catturando i giovani e prende il 40% dei voti.
La seconda tendenza concerne i partiti di centro-destra che mostrano prestazioni nettamente migliori dei socialisti, ma sono costretti in molti casi, per superare sfide drammatiche, a mutare strategia. Il liberale olandese Rutte e il popolare austriaco Kurz sfruttano per vincere le elezioni temi, soluzioni e talvolta stile tratti dal campo ideologico dei partiti liberalnazionali di Wilders e Strache deviando così dall’impostazione politica resa consueta, se non obbligata, dai ripetuti successi di Angela Merkel nel paese leader d’Europa. Già prima del 2017 in Danimarca e, fuori Ue, in Norvegia il centro-destra, guidato da liberali o da popolari, associa in maggioranza o al governo partiti di destra che chiedono un brusco giro di vite sull’immigrazione. In Ungheria il partito Fidesz di Viktor Orban, membro del Ppe, al governo dal 2010, aveva anticipato da tempo questa linea. Infine in Francia e Spagna i due partiti di sistema del centro-destra, gollisti e popolari, affrontano con imperizia pressioni politiche dirompenti e finiscono in crisi. I gollisti scelgono un candidato alla presidenza considerato inaffidabile dall’Establishment (Fillon), sono travolti da un episodio di malcostume amplificato (ad arte?) dal moralismo d’epoca e cedono il passo a un candidato centrista costruito in laboratorio (Macron) che tesaurizza anche lo sbandamento socialista. Rajoy va a uno scontro frontale, senza mediazione politica, con il malessere catalano esposto in forma secessionista e dissesta l’equilibrio istituzionale spagnolo.
I partiti anti-Establishment collocati sul versante di destra del sistema politico definiscono con la loro ascesa costante la terza tendenza. Nei paesi del gruppo di Visegrad sono al governo da soli (Polonia ottobre 2015), hanno vinto di recente le elezioni e guideranno la maggioranza (Cechia) oppure costituiscono una forte opposizione da destra (vari partiti in Slovacchia, gli ultranazionalisti di Jobbik in Ungheria) a leader (il socialista Fico, il popolare Orban) che già conducono in proprio una dura politica anti-immigrazione. In Scandinavia sono il secondo partito (Danimarca, oltre il 20%) o il terzo (Norvegia; Finlandia; Svezia dove appaiono in forte ascesa) e, come detto, hanno condiviso responsabilità di governo. Nel resto d’Europa superano il 20% in Austria (Fpo al 26%), dove probabilmente entreranno al governo, e in Belgio (Nva al 21%) dove sono il primo partito e detengono i ministeri degli Interni e della Difesa; in Francia il Front National è andato al ballottaggio presidenziale con Marine Le Pen (21%) nonostante una campagna elettorale non brillante, mentre in Olanda il Pvv di Geert Wilders (13%) è il secondo partito e in Germania l’Afd (13%) è il terzo come in Italia la Lega, secondo i sondaggi più recenti (circa il 15%). E’ evidente un discrimine fra i sistemi politici europei: nella maggior parte dei casi (Visegrad, Scandinavia, Belgio, Austria, Italia) le formazioni radicali sono considerate coalizzabili con i partiti mainstream di centrodestra e sono presenti nelle maggioranze di governo; in Germania e Francia, i due stati leader dell’Ue che finora hanno definito le coordinate politiche del continente, oltre che in Olanda vige invece una rigida conventio ad excludendum con marcati tratti moralisti che obbliga o a grandi coalizioni o a maggioranze variopinte o a congegni maggioritari con grandi moltiplicatori (Macron è diventato il presidente dei francesi raccogliendo al primo turno il consenso di circa l’11% del corpo elettorale).
Infine, ed è l’ultima tendenza, dentro le complesse costruzioni statuali d’Europa, che la spinta a estendere raggio e poteri dell’Unione tende a svalutare, ritornano vitali, certificate da vasti referendum popolari, le antiche identità regionali, dalla Scozia alla Catalogna, dalle Fiandre al Veneto – spesso fungendo da farmaco anti-crisi.
In sintesi, nell’ultimo triennio i sistemi politici europei perdono l’impronta unitaria e per molti tratti omogenea che li aveva a lungo caratterizzati e si frantumano in varianti regionali piuttosto difformi fra loro. Le nazioni ex-asburgiche dell’Europa Centrale, penalizzate dall’emigrazione e diffidenti verso la burocrazia di Bruxelles che impone molto e ascolta poco (40 anni di comando sovietico hanno reso ipersensibili verso direttive calate da fuori), riscoprono come perno culturale identità di lungo periodo e ciò favorisce partiti dal tratto nazionalista e ostile verso l’esterno. La Scandinavia, che esce da una lunga e ormai logora egemonia socialdemocratica, accentua un latente distacco dai modelli dell’Ue (referendum popolari avevano rigettato in Norvegia l’ingresso nell’Unione e in Danimarca nell’eurozona) e cerca una via politica in proprio. I paesi del Mediterraneo, massacrati dalla crisi economica e dalle terapie tedesche di austerità, scivolano – con la parziale eccezione del Portogallo – verso il dissesto acuendo la propria storica fragilità statuale (rapporti fra le Regioni, fisco, sistema bancario) che si ripercuote poi sul piano istituzionale e finanziario. Solo il nucleo franco-tedesco, esteso verso il Benelux, conserva, sia pure con fatica e scontando eccezioni (Francia in particolare), l’ispirazione originaria e tiene in vita l’interdetto contro le estreme.
Le imponenti migrazioni dal Sud e dall’Est del Mediterraneo, che scuotono il vissuto dei popoli europei, la svagata inerzia dell’Ue nell’affrontarle e i gravi errori di gestione compiuti da Merkel sono il punto di innesco della frantumazione. Ma la crisi esistenziale cade su un terreno già scosso: un decennio di crisi economica, la crescente invadenza della burocrazia di Bruxelles, politiche fiscali e monetarie disegnate con ipocrisia dagli stati del nucleo franco-tedesco a proprio vantaggio suscitano negli altri elettorati europei reazioni di autodifesa identitaria. L’Unione monetaria, nata per promuovere la convergenza delle economie nazionali, non solo provoca crescenti divaricazioni nel suo campo d’origine ma scatena processi di frammentazione politica e istituzionale. La politica, che gli algoritmi dell’unificazione monetaria pensavano di circoscrivere, rivive in chiave nazionale e accentua, per questa via, le differenze fra Stati.