Quell’incomprensibile silenzio calato su Gaetano De Sanctis
28 Dicembre 2008
L’anno scorso, fatto salvo un convegno romano organizzato dall’Istituto della Enciclopedia italiana, il cinquantenario della morte di Gaetano De Sanctis (1870-1957) è andato pressoché deserto. L’ombra del disinteresse sembra aver avvolto il grande storico dell’antichità. Eppure De Sanctis, che condivideva il cognome (ma non la parentela) con il ben più anziano e noto italianista Francesco, è stato a suo modo un’autorità.
Professore di lungo corso ed eminenza nel campo della storia greca e romana, si vide messo tra parentesi per il suo rifiuto di giurare, in qualità di docente universitario, fedeltà al fascismo. Lui, cattolico osservante, nato in una famiglia romana talmente papalina e pontificia da non piegarsi a riconoscere alcuna autorità al neonato Stato italiano, ma poi convertitosi al patriottismo di profumo risorgimentale, divenne così una sorta di Benedetto Croce in seconda. Spesso, peraltro, in disaccordo anche brusco con il maître à penser di Pescasseroli. Come accade in seno alle commissione d’epurazione postbelliche creata per cacciare dall’Accademia dei Lincei chi vi era entrato, magari alla chetichella, grazie al fatto di indossare la camicia nera. In quella occasione, il pur rigorosissimo De Sanctis imputò a Croce un surplus di zelo. Ma la sua istanza venne sconfitta e lui per ripicca non rimise mai più piede all’Accademia.
Appartato e fuori dai giochi delle cattedre per il suo “no” al fascismo, durante il Ventennio De Sanctis fu capace di mostrare tutta la sua ostilità al regime, ma non esitò a sparigliare e a uscire dal seminato dell’antimussolinismo ortodosso, appoggiando con entusiasmo e qualche distinguo l’avventura coloniale italiana. Passata una nottata di una quindicina d’anni e caduto il Duce, De Sanctis si riappropriò di tutti gli allori. La cattedra universitaria gli venne restituita a vita. E, sempre a vita, gli venne riservato un posto in Senato. Ormai cieco, lo storico continuò a scrivere e a insegnare, incarnando dietro alla lunga barba bianca e agli occhi spenti un nonsoché di professorone d’antan, con tanto di inclinazione alle spigolosità e alla polemica.
L’ombra caduta su De Sanctis in occasione dei cinquant’anni dalla morte non ha risparmiato neanche due volumi usciti nei mesi successivi, entrambi pubblicati dall’editore laziale Tored. Un bel ritratto dello storico scritto da Antonella Amico, “Gaetano De Sanctis. Profilo biografico e attività parlamentare” (pagine 344, euro 36) ricostruisce la sua vicenda pubblica e privata. Ma ancora più interessante è un inedito narrativo di De Sanctis: il romanzo “Andromaca” (pagine 164, euro 20) che l’antichista romano scrisse nel 1938 e mai pubblicò. Avvezzo alla saggistica e alle note a pié di pagina, De Sanctis si cimenta qui in un’opera di fiction, ma non ha il coraggio di allontanarsi un granché dai suoi amati studi. La protagonista è Andromaca, che vive come prigioniera di lusso a Ftia, nella reggia del defunto Achille che a Troia le ha ucciso il marito Ettore. Morti i suoi protettori, l’ex regina si trova a fare la schiava addetta alle pulizie e deve attendere, con una pazienza da Giobbe ma con la schiena sempre dritta, l’agognato riscatto.
Nel romanzo, De Sanctis alterna un piglio retorico da apologo morale (rispecchiando forse la sue stesse vicissitudini nell’immacolata ma indefessa resistenza di Andromaca ai soprusi) a una grazia narrativa da romanzo ellenistico. Ma dove non te l’aspetti salta fuori il cattedratico e così qui e là un felice quadretto d’ambiente viene azzoppato da una glossa da professore: Andromaca indossa un coroncina d’oro e De Sanctis non si trattiene dal chiosare: “Un ornamento molto simile a quello rinvenuto nel così detto tesoro di Priamo”. Allo stesso modo, “la chioma intonsa e scomposta” del guerriero Acasto subisce la sua parentesi un po’ pedante: “Come era allora in generale l’uso dei ben chiomati Achei e come rimase ancora quella degli Spartani nel sec. V e IV”. Tuttavia, al netto di qualche goffaggine, il romanzo di De Sanctis rimane un documento interessante. Tutto sommato, è soprattutto un libro insolito e piacevole, scritto da un “originale” della nostra accademia.