Quello che cerca la Turchia è una nuova “pax ottomana”
21 Luglio 2010
La Turchia, Paese storicamente influente nell’area del Mediterraneo Orientale, che fu sede del Califfato e di una delle capitali storiche più importanti della storia recente, Istanbul, avverte la necessità di una ricollocazione internazionale nuova. L’ intervento rivoluzionario che il governo Erdoğan ha posto in essere dalla sua elezione in poi non ha solo toccato gli aspetti su cui massimamente si è discusso in Patria ed all’ estero, quali il ritorno ad una visione meno laica della società, l’impoverimento del potere delle Forze Armate e un più spinto liberalismo economico, ma ha cominciato ad assumere i contorni di una policy internazionale forte, ben strutturata e soprattutto innovativa: il ritorno dell’ asse politico turco tra Sarayevo e Teheran.
La posizione geografica della Turchia ha sempre significato molto nell’ ottica di un’alleanza, quella della NATO, che possiede un’idea di “territorialità” nel suo stesso nome. Avere a disposizione una massa fisica delle dimensioni dell’ Anatolia da contrapporre come “tappo” a quel variegato marasma di pressioni provenienti dall’Asia Centrale, storicamente afferente all’Unione Sovietica, ha comportato durante la Guerra Fredda la stabilità dei confini atlantici e la sicurezza di quelli europeo-mediterranei.
La Turchia ha costituito, per decenni, uno dei figli diletti dell’ Alleanza. Averla significava contare su un avamposto occidentale in Asia. Proprio come Israele per gli Stati Uniti.
Da quando dei MIG sovietici non c’è più da aver paura, l’Atlantismo ha destrutturato il suo significato di alleanza difensiva, di “massa” di difesa europeo-americana, per assumere i contorni di una forza di mobilitazione a difesa della sicurezza globale e di appoggio alle missioni internazionali di pace. Cosa che, naturalmente, ha significato molto per la Turchia. Fino alla caduta del Muro, infatti, la difesa dei confini atlantici orientali coincideva con il presidio di quelli turchi, ed incontrava la piena attenzione dell’Alleanza, intenzionata a respingere quel PKK finanziato da Mosca per evitare la penetrazione di ideologie comunista, attraverso la Turchia, in Europa. La minore attenzione posta dalla NATO ed un matrimonio con l’ Europa che segna il passo tanto da farne sospettare la stessa fattibilità sono fattori che, ad Ankara, suggeriscono cambiamenti.
Le cause che hanno portato ad un simile mutamento di rotta sono molteplici, ma riconducibili in ultima analisi al senso di “inadeguatezza” ai tempi che si è voluto riscontare nell’apparato dello Stato turco, inteso come incapacità di fare fronte a quei naturali cambiamenti storici e sociologici che non possono non interessare la vita del Paese. La moderna Turchia, infatti, si fonda sul pensiero pro-occidentale kemalista, che desidera una Turchia europea (in senso culturale), con la prora ben diretta verso Occidente e le Forze Armate a fare da timoniere. Un’ idea che ha portato nel primo trentennio repubblicano al compimento di un processo di laicizzazione ed occidentalizzazione senza precedenti.
Come ebbe a dire il re Michele di Romania al momento della sua abdicazione, però, la cosa più importante per la politica è rendersi conto del cambiare dei tempi, ed agire in funzione di esso. Questa massima sembra non essere stata colta dall’establishment politico-militare turco che, vuoi per formazione, vuoi per indirizzo politico ha traghettato il Paese non tenendo conto dell’ inevitabile scorrere del tempo (e dei mutati scenari che esso presentava) ma al contrario agendo in senso meramente conservativo. In maniera sicuramente semplicistica ma, in punto di fatto, rispondente alla realtà, la politica conservatrice tenuta dal Partito Repubblicano del Popolo (CHP, quello di Ataturk) e dalle Forze Armate può riassumersi in questo: la mera difesa di quanto dettato dall’ impianto di kemalista, considerando il resto, semplicemente, da respingersi.
Ma una politica troppo rigida, incapace di innovarsi ed attiva soprattutto nella soppressione delle deviazioni dello Stato (in massima parte in senso religioso, come nel caso Menderes) tramite colpi di Stato non può sopravvivere nell’attuale contesto. Essa è priva di elasticità, non coglie il senso reale del kemalismo, consistente nell’occidentalizzazione intesa come continuo rinnovarsi della società secondo modelli laici, ed è destinata a morire perchè si muove di movimento inerziale, verso un suo esaurimento. Il senso dell’ avvicinamento di Ankara alla Comunità Europea, cominciato già con gli accordi del 1963 e l’ Unione doganale nel 1970 e poi maturato con una formale candidatura all’ entrata nel 1987, aveva proprio il senso di voler fornire un “cappello” al processo di europeizzazione: la sua formalizzazione sarebbe stata ufficialmente sancita da Bruxelles.
Ma quell’ Europa del libero commercio, della caduta delle barriere doganali, del mercato unico ha, anche essa, subito un processo di trasformazione, venendo ad assumere nella visione di molti i contorni di una Nazione, ovvero di un Unione di Stati che condividessero elementi culturali e storici omogenei. Bruxelles, finora (o, per meglio dire, i Paesi afferenti alla UE in discreta parte) sembra non avere colto il punto della situazione. La “pratica” turca stagna in attesa di firma, anche a causa dell’amplio dibattito sull’ opportunità di considerare la Turchia un Paese culturalmente europeo, dato che nell’ immaginario collettivo il “turco” sta ancora a rappresentare il “diverso”, se non il “nemico”. I punti reali della questione sono naturalmente di tutt’ altro genere e di tutt’ altra portata. Il vero dibattito insiste sulla possibilità che un Paese dalle Istituzioni tanto dipendenti dalle Forze Armate possa armoniosamente inserirsi in un quadro di liberalità tipico dell’ Europa. La risposta sembra essere negativa.
L’AKP (partito Giustizia e Sviluppo), forza politica di sicura ispirazione islamica, ha saputo farsi forte sia della inadeguatezza dello Stato turco di cui sopra che delle richieste di maggiore separazione del potere politico da quello militare proposte dall’ Europa per giocarle a proprio favore. Storica l’apparizione della signora Erdoğan (moglie del leader del partito AK ed attuale Primo Ministro) a Bruxelles per lamentare la sua necessità di mandare le figlie a studiare negli Stati Uniti perché impedite, in Turchia, di portare il velo (turban) negli edifici pubblici (università incluse). La risposta dell’Europa fu una richiesta di maggiore libertà religiosa (!) e di permettere una piena separazione tra Forze Armate e governo, asserendo che finchè in Turchia sarebbero stati i militari a controllare il governo e non viceversa e non vi fosse stata piena libertà religiosa, non vi sarebbe stato per Ankara alcuna possibilità di ingresso.
Al di là della contraddizione data dal fatto che l’ostentazione di simboli religiosi in luoghi pubblici è vietata anche in alcuni Paesi indubitabilmente europei, il vero dato all’ attenzione di tutti è che la Turchia desidera tornare a rivestire una funzione definita e di avere un punto di riferimento certo: nessuno Stato può vivere in autocrazia, senza afferire ad un sistema cui far riferimento. La Turchia si sente orfana e se l’ Unione Europea non permette o non capisce e la NATO non è più quella di una volta e non sorregge al potere i militari, con un governo certamente molto nostalgico del passato, la Turchia può riscoprirsi centro di un asse proprio di relazioni che ruotano attorno all’ ormai defunto Impero Ottomano.
Fulcro dell’ orientamento della politica estera turca è il brillante Ahmet Davutoğlu, Ministro degli Esteri molto attivo, autore nel 2000 dell’ interessante “Profondità strategica” nel quale identifica i Balcani ed il Mediterraneo Orientale come naturale luogo di influenza turco e deciso ad inviare segnali di indubbio significato alla Comunità Internazionale. Già un anno fa l’ Esercitazione “Anatolian Eagle”, che si svolge in territorio turco e che vede normalmente protagonisti la NATO ed Israele, ha dovuto fare a meno della presenza di quest’ ultimo: come spiegato dal Primo Ministro Erdoğan, la Turchia non desiderava ospitare sul proprio territorio “i responsabili dell’ eccidio dei bambini di Gaza”. Fino all’ inizio degli anni 2000 una affermazione del genere sarebbe stata inverosimile.
E’ recentissimo "l’ incidente" della Freedom Flottilla avvenuto al largo di Gaza: una nave battente bandiera turca tenta di violare l’ embargo verso la Striscia ed è oggetto della reazione israeliana.
Dalla cosa consegue la morte di alcune persone, delle quali 8 su 9 sono cittadini turchi. Ne seguono riunioni con gli israeliani. E’ del 5 luglio la notizia dell’ Ultimatum delle Autorità turche: le scuse di Israele, la sua accettazione di subire una ispezione imparziale ed accettarne le risultanze o la rotture delle relazioni diplomatiche. Qualcosa di assolutamente impensabile fino a poco tempo fa, e che ha destato la preoccupazione di molte cancellerie europee. Il feedback proveniente dai Paesi di ispirazione religiosa islamica è stato invece estremamente positivo.
Riuscito, evidentemente, il tentativo di ingraziarsi le opinioni pubbliche dei Paesi arabi islamici e di cominciare una “inversione” della visione che ha la Comunità Islamica della Turchia, Paese che deve farsi perdonare un passato da rigido governante ma che proprio per questo può vantare un certo ascendente, abbastanza sunnita poi da non dispiacere a quelli del Golfo ed abbastanza aperto all’ Iran da non dispiacere agli Sciiti.
Il presidente americano Obama è recentissimamente tornato a caldeggiare una piena entrata (full membership) della Turchia in Europa: la posizione statunitense certo non stupisce. L’ entrata nella UE comporterebbe, per gli Stati Uniti, l’ assorbimento del dossier Turchia fra quelli legati a Bruxelles e la messa in sicurezza di uno Stato che scalda i motori tra le tranquille braccia europee, che di sviluppare una politica estera comune e dirimere i contrasti interni che la ostacolano sembrano non avere grandi capacità (nonostante la Baronessa Ashton).
Molto interessante anche l’ evolversi delle relazioni tra gli Stati turanici, ovvero di quelle Nazioni che si riconoscono la medesima origine centroasiatica della Turchia e tendono ad una riassetto delle relazioni (soprattutto commericali) con Ankara basato sui presupposti della comune origine, una sorta di “Comunità Turanica” che ha cominciato a concretizzarsi già negli anni ’80 sotto il presidente Turgut Ozal e che ora si vede incrementata ed irrobustita dalla stipula di accordi energetici col Kazakistan.
Le cose ad Ankara evolvono con grande rapidità, e sembra essere corretta l’ interpretazione di chi voleva definire l’ attuale politica estera turca “neo-ottomanesimo”. Intervistato direttamente su ciò a seguito di una conferenza a Sarayevo nella quale aveva ricordato l’ epoca nella quale i Balcani, sotto gli Ottomani, erano il fulcro della politica mondiale, Davutoğlu spiega di non voler in toto accettare la definizione, ma di poterla certo condividere se, per “neo ottomanesimo” volessimo intendere una “pax ottomana” tra regioni storicamente afferenti ad Istanbul.
In punto di fatto, le cose stanno in questi termini: Ankara non sta ad aspettare, e se Bruxelles decide di rompere il fidanzamento, cosa probabilmente auspicata dalla attuale dirigenza turca che si troverebbe così a poter agire in maniera completamente autonoma avendo già conseguito la rottura del tabù kemalista in Patria, sarà lei stessa a ricostruirsi una rete di relazioni che la vedranno come fulcro e che non mancherà di fare riferimento diretto all’ eredità culturale islamica.
A seguito della questione sull’arricchimento del plutonio persiano, da inviarsi in Turchia perché da questa torni a Tehran per usi medici, Israele asserisce di avere a disposizione un satellite che permette di osservare nettamente i dirigenti persiani “mentre bevono il caffè turco”. Staremo a vedere che sapore avrà.