Quello che è cambiato dopo l’11 Settembre
11 Settembre 2012
di redazione
11/09/2001. Dopo undici anni quella enorme ferita al cuore dell’Occidente è ancora aperta. New York ricorderà, come di consueto, i nomi delle 3.000 vittime delle Twin Towers, di Washington e della Pensilvania. Ma quelle di quest’anno – tra le polemiche sul completamento del Museo della Memoria a Ground Zero placatesi solo qualche ora fa – saranno celebrazioni sotto tono. Nessun politico di rilievo, né il sindaco Michael Bloomberg né altri, prenderanno la parola a N.Y, mentre il presidente Obama e la moglie Michelle si raccoglieranno in silenzio prima nei giardini della Casa Bianca poi al memoriale del Pentagono. Una cerimonia di ricordo sarà anche tenuta al Congresso. Mitt Romney, il candidato repubblicano alle presidenziali, interverrà alla conferenza annuale della National Guard Association of the United States, a Reno, in Nevada.
Vi riproponiamo, per l’occasione, un contributo di Maurizio Molinari "Dieci anni dopo La guerra è appena iniziata" tratto dall 25esimo numero della rivista Ventunesimo Secolo, 11 Settembre. 10 anni dopo, di giugno 2011.
"Dieci anni dopo La guerra è appena iniziata" di Maurizio Molinari
Identità dell’avversario
A firmare gli attacchi dell’11 settembre è Al Qaeda di Osama bin Laden, che nel 1998 proclama la jihad contro gli ebrei e i crociati e lo scorso 1° maggio viene ucciso da un blitz americani in Pakistan, e la regia operativa è di Khalid Sheik Mohammed, catturato dagli americani in Pakistan nel 2003, ma a tracciare l’identità di un avversario che oltre l’identikit degli ideologi della Jihad è lo storico Bernard Lewis nel libro What Went Wrong che è nelle librerie americane proprio nei giorni del crollo delle Torri Gemelle. Storico raffinato e profondo conoscitore dell’Islam, Lewis guarda oltre Al Qaeda e descrive un Islam fondamentalista avversario dell’Occidente perché nemico della modernità, immune all’illuminismo e dunque refrattario alle idee di libertà e democrazie generatesi dalle rivoluzioni francese ed americana.
Quanto avvenuto dall’indomani dell’11 settembre testimonia la solidità dell’analisi di Bernard Lewis: gli attacchi kamikaze che hanno insanguinato Bali, Londra, Gerusalemme, Madrid, Casablanca, New Delhi, Baghdad, Kabul e dozzine di altre città in più Continenti hanno in comune il fatto di essere stati perpetrati da gruppi, cellule o organizzazioni che pur non essendo sempre emanazione diretta di Al Qaeda ne riflettono l’ideologia – partorita dalla militanza di Bin Laden e dal pensiero del vice egiziano Ayman al- Zawahiri – di rifiuto della modernità, dei diritti delle donne, dei gay e delle minoranze come anche di sistemi politici fondati sulla rappresentanza parlamentale, la segretezza del voto, lo Stato di diritto e, in ultima istanza la libertà del singolo.
Questa identità comune di chi ha aggredito, e continua ad aggredire, le democrazie si ritrova anche nelle cellule fondamentaliste composte da uomini e donne nati e cresciuti in Occidente ma figli di immigrati oppure convertiti alle correnti fondamentaliste dell’Islam. Gli attentatori di Londra nel 2005, il pakistano-americano che ha tentato di far esplodere un’autobomba a Times Square nel 2010 come i volontari del Benelux andati a combattere in Iraq o del Minnesota arruolatisi con gli shebab in Somalia testimoniano la forza di un’ideologia che, stravolgendo il messaggio del Corano e adoperando una terminologia islamica, fa proseliti in ogni emisfero del pianeta, creando una situazione di aggressione permanente alle democrazie, tanto lungo il perimetro esterno delle loro alleanze che all’interno dei singoli confini nazionali. L’identità dell’avversario non è dunque religiosa, etnica o nazionale ma ideologica.
Proprio come fu nel caso del nazifascismo e del comunismo, le democrazie – dall’Europa al Giappone, dall’Australia al Brasile, dall’India a Israele, dagli Stati Uniti al Ghana – si trovano di fronte a una sfida alla sicurezza collettiva che si genera nella convinzione che le libertà personali siano una degenerazione contemporanea. Il manifesto della jihad di Osama bin Laden è la sintesi di un fenomeno assai più vasto, le cui declinazioni continuano a sovrapporsi: la volontà dei salafiti dell’Africa occidentale di creare una Califfato dal Sahara all’Oceano Indiano, lo Stato islamico che gli shebab somali tentano di instaurare a Mogadiscio, gli esplosivi miniaturizzati con cui l’imam Anwar Al Awlaki prova a colpire l’America dallo Yemen, lo statuto di Hamas che fa proprie le tesi dei Protocolli dei Savi di Sion e la negazione della Shoà da parte del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad disegnano un arco di intolleranza contro i valori delle democrazie contemporanee che va dal fondamentalismo sunnita a quello sciita passando per l’intolleranza che serpeggia in troppe comunità di immigrati.
Per identificare tale avversario il presidente americano George W. Bush adoperò termini come «Radical Islam» (estremismo islamico) e «Islamofascism » (islamofascismo) mentre il successore Barack H. Obama preferisce usare «Violent Extremists» (estremisti violenti) al fine di negargli anche ogni apparentamento con la religione musulmana. La differenza di linguaggio svela approcci strategici differenti al conflitto ma ciò non toglie che l’avversario è il medesimo. E resta pericoloso anche dopo la morte di Bin Laden perché, come ha riassunto il capo della Cia Leon Panetta, in una e-mail ai dipendenti dopo il raid di Abbottabad: «Lui è morto ma Al Qaeda no, dunque la lotta continua». Scenario del conflitto Il conflitto innescato dall’11 settembre si svolge su più fronti.
Quelli più caldi corrispondono alle guerre in corso: in Afghanistan la Nato è impegnata dall’ottobre 2001 in un’operazione che si svolge sulla base dell’articolo 5 della Carta atlantica – che prevede l’obbligo alla difesa collettiva – e vede l’impiego di oltre 150 mila uomini contro i taleban, che si propongono di rovesciare il governo di Hamid Karzai per ripristinare il regime che offrì ad Al Qaeda la piattaforma da cui lanciare gli attacchi contro New York e Washington che fecero quasi tremila vittime civili; in Iraq la coalizione guidata dagli Stati Uniti a partire dal 2003 sta per terminare la missione che, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein nell’aprile di quell’anno, l’ha vista impegnata ad impedire che Al Qaeda riuscisse a insediarsi nel Triangolo sunnita. Entrambe queste campagne militari, iniziate dall’amministrazione Bush, sembrano destinate a concludersi.
La Casa Bianca di Obama, infatti, ha siglato con il governo iracheno gli accordi per il completamento del ritiro delle truppe entro il 2011 mentre a partire da luglio inizierà la riduzione dei contingenti in Afghanistan con l’obiettivo di portarla a termine nel 2014. Ciò significa che questi due fronti caldi, dove i soldati americani e della Nato sono presenti sul terreno, sono destinati a vedere i governi di Baghdad e Kabul – eletti in elezioni velate spesso dal sospetto di irregolarità – confrontarsi con la sfida di gruppi estremisti ancora attivi, sebbene molto indeboliti. Il rischio di nuove offensive di Al Qaeda in Iraq e dei taleban in Afghanistan sulla scia della riduzione dei contingenti delle coalizioni solleva lo scenario di due giovani democrazie a rischio, a cui l’Europa e gli Stati Uniti saranno chiamate a dare crescente sostegno in termini di impegno civile ed economico.
Poi vi sono i nuovi conflitti iniziati dall’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca nel gennaio 2009 che si distinguono per la scelta di non impiegare truppe di terra: in Pakistan gli attacchi dei droni della Cia contro le cellule jihadiste nelle Aree Tribali lungo il confine dell’Afghanistan e in Yemen l’impiego di truppe speciali a fianco dei contingenti di truppe locali descrivono una ricetta di attività belliche contro le più solide basi di Al Qaeda ancora esistenti che ha un’ulteriore ramificazione nell’Africa occidentale, dove il “Comando Africa” del Pentagono addestra contingenti di forze nei singoli paesi per consentigli di dare la caccia ai jihadisti che operano celandosi nel Sahara. Anche in Somalia le forze americane hanno colpito, con attacchi mirati dal cielo ed almeno in un’occasione con blitz di truppe speciali, lasciando intendere il timore che il Corno d’Africa diventi il punto di incontro fra le cellule che operano nello Yemen e nel Sahel.
Fra le novità portate dall’amministrazione Obama c’è proprio una tattica militare che verte sulla sovrapposizione di intelligence e truppe speciali, tendendo a lasciare in secondo piano il ricorso a contingenti di tipo tradizionale, facendo del conflitto al terrorismo una guerra più segreta rispetto a quanto avveniva con George W. Bush: allora l’America voleva essere visibile nel duello con il nemico per dimostrare che l’11 settembre non l’aveva messa in ginocchio mentre ora la Casa Bianca vuole una campagna militare il più possibilmente invisibile al fine di scongiurare contraccolpi politici seri, in patria come all’estero, di decisioni spesso controverse sul piano della legalità.. Se tali scenari vedono impegnati strumenti militari, truppe scelte e i più sofisticati apparati di intelligence, sul fronte interno le democrazie si trovano invece a combattere i jihadisti con altre armi: forze di polizia, intelligence tradizionale, codici, processi e detenzioni. In questo caso la sfida è di tutt’altro tipo perché ogni governo si trova di fronte alla necessità di bilanciare diritti di libertà e necessità di sicurezza, andando incontro al rischio di limitare i diritti dei cittadini al fine di proteggerli.
È un bivio che vede l’America lacerarsi sulla questione dell’“ethnic profiling” ovvero la tradizionale opposizione a identificare delle potenziali minacce in base all’identità etnica degli individui nonostante il fatto che tutti i terroristi interni arrestati a partire dal 2001 siano di fede musulmana. Ad evidenziare tale ritrosia c‘è il comportamento del Pentagono che, dopo la strage di Fort Hood commessa nel novembre 2009 dal maggiore Nidal Maik Hassan – su mandato dell’imam Al Awlaki – ancora non la classifica come un atto di jihad contro la sicurezza nazionale, al fine di evitare conseguenze negative sulle migliaia di musulmani americani che servono nei ranghi delle forze armate. In Europa, dal Londoninstan britannico alle banlieue parigine fino alle nostre metropoli, a complicare l’opera di prevenzione vi sono le difficoltà dovute a leggi sull’immigrazione che spesso ostacolano l’integrazione, favorendo spinte integraliste. Negli ultimi quattro anni in più occasioni il Congresso di Washington ha condotto audizioni, studi e ricerche sull’immigrazione dei musulmani in Europa, rivelando che si tratta di un fenomeno di massa che mette a nudo l’impreparazione dei singoli paesi ad accoglierlo, oscillando spesso fra scelte estreme – ostilità all’integrazione o eccessi di tolleranza – che creando una cornice capace di favorire il reclutamento di cellule jihadiste oppure il prolificare di violenze commesse da singoli individui.
(…)
Continua a leggere l’articolo sul sito di Ventunesimo Secolo – Rivista di Studi sulle transizioni….
Tratto da 11 Settembre. 10 anni dopo, Ventunesimo Secolo – Rivista di Studi sulle transizioni, Anno X, Numero 25, Giugno 2011. Tutti i diritti riservati