Quello che non si è detto sul Libro Bianco del ministro Sacconi

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Quello che non si è detto sul Libro Bianco del ministro Sacconi

11 Maggio 2009

Se ne è parlato poco (a fronte della sua importanza) e non sempre correttamente, in quanto hanno trovato spazio sui media le materie escluse piuttosto che le proposte. Parliamo del Libro Bianco che il ministro Sacconi ha presentato e fatto approvare dal Governo nei giorni scorsi. Portato a rispondere, nella conferenza stampa, sull’attualità (anche in conseguenza di alcune anticipazioni dei contenuti del documento che avevano "forzato" la realtà) Sacconi ha ripetuto che non è intenzione del Governo di modificare il sistema pensionistico, di reintrodurre le "zone salariali" e di rivedere l’articolo 18 dello Statuto.

In effetti, se un rilievo si può fare al Libro bianco è proprio quello di dedicarsi particolarmente a tracciare un quadro culturale e politico di un nuovo modello sociale, in cui le politiche di Welfare non solo si coordinano tra tutti i settori (di qui il visibile errore dello scorporo della Salute, dal Lavoro, Previdenza e dalle politiche sociali) ma si intrecciano con le nuove politiche attive del mercato dell’impiego. 

Il pensiero corre subito ad un’altra esperienza di ripensamento "in grande" del nostro sistema di sicurezza sociale: le relazioni prodotte dalla Commissione Onofri del 1997. In quel caso, insieme ad un documento di carattere generale, furono predisposte delle relazioni settoriali ricche di idee e di suggerimenti (corredate di un forte impianto tecnico) riguardanti il riordino delle prestazioni vere e proprie. Nel Libro bianco, invece, sono prevalenti la "visione" del futuro e il quadro di valori sui quali devono essere riorganizzate le politiche, in una logica di "sussidiarietà sociale" in cui alle comunità intermedie (la famiglia, l’associazionismo, gli istituti della partecipazione e del negoziato) vengono affidati compiti di realizzazione di tutele sempre più destinate ad allargarsi, a differenziarsi e a scontarsi, quindi, con le esigenze di uniformità delle politiche pubbliche. Ovviamente non è il caso di dare conto, in un articolo, di un’elaborazione innovativa e complessa come quella prefigurata nel Libro bianco. E’ interessante notare, tuttavia, come il documento affronta la grande questione – di carattere europeo – del rapporto tra sostenibilità e adeguatezza delle politiche di welfare.

“La concreta possibilità di periodiche fasi di instabilità delle economie – è scritto nel Libro bianco – rende il tema della sostenibilità estremamente importante per garantire coesione sociale senza ostacolare la crescita.

Il Welfare italiano è debole negli istituti che sostengono la vita attiva, appesantito – peraltro – da un finanziamento pressoché esclusivo sugli attivi, condizionato da una polarizzazione eccessiva della spesa sulle pensioni, segnato da un servizio socio-sanitario inefficiente e oneroso nel Centro-Sud.

Con il declino dei tassi di fertilità e l’aumento della aspettativa di vita, nel 2050 ogni italiano in età da lavoro sarà chiamato a contribuire al finanziamento delle prestazioni pensionistiche e sanitarie degli ultrasessantacinquenni con una quota superiore al 42 per cento del PIL pro capite, mentre per gli occupati il peso sarà superiore al 62 per cento. Un onere insostenibile sul reddito degli attivi, che disincentiva il lavoro regolare e penalizza il risparmio, gli investimenti, la produttività”. Questa situazione si scontra con il quadro della finanza pubblica. “Se si considerano congiuntamente – prosegue il Libro bianco – gli andamenti di spesa previsti per pensioni e sanità, per condurre il debito pubblico al 60 per cento del PIL nel 2050, l’Italia dovrebbe generare un profilo di avanzi primari in costante aumento, sino a superare il 10 per cento del PIL. Si tratta di requisiti irrealistici, che potrebbero essere raggiunti unicamente compromettendo funzioni essenziali o innalzando la pressione fiscale e contributiva a livelli insostenibili”. Ecco allora le "uscite di sicurezza". “Il primo obiettivo per la sostenibilità del modello sociale rimane pertanto l’incremento della natalità e dei tassi di occupazione regolare. All’incremento dei contribuenti e alla efficienza delle prestazioni si deve pertanto aggiungere la promozione di una pluralità di fonti e di modalità di finanziamento anche allo scopo di organizzare in termini più convenienti la spesa sociale privata che comunque si induce dai limiti della offerta pubblica”.

Un ruolo crescente è destinata a svolgere la contrattazione collettiva che già oggi ha avviato esperienze di gestione condivisa tra le parti di fondi dedicati alla previdenza complementare, alla sanità integrativa e alla protezione della non autosufficienza. Tali fondi realizzano una negoziazione o regolazione più efficiente delle relative prestazioni. Fino a quando la pressione fiscale e contributiva sugli attivi rimane contenuta e il sistema economico cresce, gli aspetti positivi dei sistemi di Welfare a ripartizione tendono a prevalere. Invecchiamento della popolazione e bassa crescita fanno tuttavia sì che il finanziamento delle prestazioni del Welfare attraverso la ripartizione rappresenti un onere troppo pesante per gli attivi, con effetti equivalenti a quelli di una tassazione elevata e di una eccessiva intermediazione dello Stato nella allocazione delle risorse.

Quando una quota troppo elevata del reddito prodotto viene prelevata per finanziare prestazioni non pienamente appropriate e dilazionate nel tempo, si ingenerano effetti che incidono negativamente su occupazione e crescita determinando un circolo vizioso che conduce al collasso del sistema.

È pertanto necessaria una diversificazione delle fonti di finanziamento del sistema sociale con la definizione di proporzioni sostenibili per il funzionamento a “ripartizione” e con l’identificazione degli ambiti di sviluppo del canale di finanziamento a “capitalizzazione reale”.

Il finanziamento a “capitalizzazione” non può, per sua struttura, perseguire direttamente finalità redistributive. Vero è tuttavia che il finanziamento a capitalizzazione genera risorse finanziarie che, se opportunamente indirizzate, possono attivare investimenti di lungo termine i quali alimentano il processo di produzione e contribuiscono a generare sviluppo.

Se per le persone il concorso obbligatorio alla ripartizione è assimilabile al prelievo fiscale, la contribuzione a piani di investimento privati rimane una scelta volontaria di risparmio e non provoca effetti negativi sulle scelte individuali di lavoro e di produzione.

Il rinnovamento del Welfare richiede, secondo il Libro e conseguentemente, una combinazione equilibrata tra finanziamento a ripartizione e finanziamento a capitalizzazione.

Fino adesso – si dirà – non vi è nulla di nuovo. Ma è a questo punto che interviene una vera e propria svolta. Per garantire la sostenibilità ed evitare il razionamento delle prestazioni è necessario tener conto delle possibilità di spesa. Si denota così – secondo il Libro bianco – il principio guida dell’universalismo selettivo, che ne segna la distanza dall’utopia di un universalismo assoluto, che non fa i conti con la scarsità delle risorse e con la sostenibilità. L’universalismo selettivo sancisce il principio della parità dei cittadini nell’accesso alle risorse e, allo stesso tempo, pone i presupposti per la sostenibilità finanziaria e il controllo della qualità dei servizi. È un modello che valorizza la responsabilità degli individui e la capacità dell’attore pubblico di stabilire ordini di priorità e dosare le risorse per mantenere il più possibile ampia la platea delle prestazioni e dei beneficiari, nel rispetto degli equilibri finanziari e senza introdurre discontinuità nei trattamenti. L’universalismo selettivo – prosegue il documento – richiede il coordinamento e una leale collaborazione tra Stato, Regioni ed enti locali, per coniugare coesione e responsabilità. La previsione di flussi perequativi tra i territori si fonda su principi e regole di selettività omogenei.

Lo sviluppo di un sistema a più pilastri e l’affermazione del principio di universalismo selettivo aprono nuovi spazi per reindirizzare il finanziamento a ripartizione, permettendo una adeguata diversificazione degli istituti di protezione sociale che può essere realizzata nei livelli essenziali definiti dallo Stato, ma che richiede, per i sottolivelli di governo, la possibilità di sperimentare formule nuove, in relazione alle specificità e alle preferenze dei cittadini. In un quadro organico e completo, questa possibilità può spingersi sino a riconoscere ai cittadini, come singoli o in formazioni associate, la possibilità di partecipare alla definizione degli interventi e alla loro organizzazione funzionale.

La varietà e la dinamicità delle situazioni di individui e famiglie richiede di accompagnare le diverse fasi del ciclo di vita differenziando tutele e servizi, promuovendo scelte responsabili e comportamenti virtuosi.

Le proiezioni di lungo termine evidenziano la stabilizzazione dell’incidenza sul PIL della spesa pensionistica. Nondimeno, con un valore al di sotto del 14 per cento solo dopo il 2055, le pensioni finiscono per sottrarre spazio alle altre funzioni del Welfare da finanziare a ripartizione, essenziali sia per la tutela degli individui lungo tutta la vita sia per la stabilizzazione anticiclica della economia e per la promozione della occupazione.

Essendo quello delle pensioni un nodo cruciale, secondo il Libro bianco, la stabilizzazione di lungo termine della incidenza della spesa pensionistica pubblica non è di per sé un risultato soddisfacente. Essa nasconde molte pensioni di livello medio–basso, in molti casi insufficienti a superare la soglia di povertà, a causa di carriere brevi e discontinue e di tassi di accumulazione dei contributi pensionistici bassi in linea con la dinamica del PIL. Con il risultato che tanti pensionati domanderanno prestazioni assistenziali che, non essendo state programmate finanziariamente, potrebbero non essere disponibili per tutti.

L’obiettivo, pertanto, non può essere soltanto la stabilizzazione della spesa sul PIL, ma anche un eventuale ridefinizione dell’equilibrio tra le fonti di finanziamento che possa creare le condizioni per profili di contribuzione pensionistica più contenuti, a parità di obiettivo in termini di tasso di sostituzione complessivo (pubblico e privato). Le possibili condizioni di ricorrente instabilità dei mercati finanziari e immobiliari inducono a rafforzare i criteri di stabilità nel lungo periodo delle gestioni previdenziali private – tanto sostitutive quanto complementari – anche attraverso fondi associati di garanzia delle prestazioni.

Nella gestione della transizione verso il nuovo assetto, un ruolo cruciale riveste l’allungamento delle carriere e il raggiungimento di proporzioni più equilibrate tra vita attiva e vita in quiescenza dopo il pensionamento definitivo. L’allungamento delle carriere ha una importanza primaria per disegnare un Welfare capace di offrire tutele e rispettoso delle compatibilità economiche.

All’innalzamento della speranza di vita non può non corrispondere un aumento degli anni di lavoro, quelli dedicati alla produzione delle risorse necessarie a garantire la qualità di una vita più lunga. Se ciò non avverrà, generazioni di adulti e anziani sempre più numerose graveranno in misura crescente sulle risorse prodotte dalle giovani generazioni.

In questa prospettiva, – Sacconi si ripete per l’ennesima volta – l’obiettivo della equiparazione dei requisiti pensionistici tra uomini e donne richiede una preventiva evoluzione del mercato del lavoro nei termini di una maggiore inclusione del lavoro femminile, altrimenti doppiamente penalizzato. L’affermazione è discutibile perché i dati di fatto stanno a dimostrare che il tasso di occupazione femminile è aumentato proprio in conseguenza delle misure d’innalzamento dell’età pensionabile assunte nel quadro delle riforme degli anni ’90.