Quell’uragano di Michele Bachmann
15 Luglio 2011
Due questioni mostrano quanto sia fondamentale, anche nell’agone politico, chiamare sempre le cose con il nome che hanno. La prima è questa. Da quasi una settimana la Casa Bianca cerca di accordare le parti quando non di tenere letteralmente testa all’opposizione seduta a quel tavolo bipartisan che il presidente Barack Hussein Obama ha convocato per prendere – dice, parrebbe – il toro del deficit nazionale per le corna. Discutono, chiacchierano, si alzano; poi tornano, nuova seduta, nuove parole, altre chiacchiere; talvolta a qualcuno salta la mosca al naso, Obama compreso, il tavolo salta per aria, ma subito ne viene convocato un altro. Di che parlano, di cosa trattano, a che punto sono i negoziati? Ognuno – cioè ogni commentatore – dice – per mestiere – la sua, ma il bandolo della matassa è facile da districare. I conti pubblici degli Stati Uniti vantano un buco enorme. Va colmato. Sennò si va tutti alla malora. In tempi rapidi, se non altro almeno entro una data x. Bisogna trovare la pezza che turi la falla. I Democratici assieme a Obama sfoderano la classica ricetta di ogni governo progressista: aumentare le tasse. Aumentarle ai “ricchi”, si dice: ma chi siano i “ricchi” da spennare con pizzi e ticket lo decide solamente il beneficiario unico di questa estorsione. I Repubblicani, invece, quelli contro Obama, dicono che nemmeno per sogno. Tagliamo piuttosto la spesa pubblica, quell’onnivora macchina elefantiaca che pare uscita da una pellicola horror. Le due filosofie sono chiare: quella progressista addossa ai cittadini i costi delle malefatte dello Stato, quella conservatrice pota i rami morti che fanno solo sprecare denaro. Giratela come volete, ma la questione è tutta qui. È anche per questo che i “Tea party” avanzano.
La seconda questione porta il nome dell’uragano Michele Bachmann. Le anime belle si stanno stracciando le vesti perché la candidata alle primarie Repubblicane ha detto che si può anche smettere di essere omosessuali. Pure attraverso la preghiera. Come da decenni fa suo marito Marcus, consulente di coppia e titolare assieme a lei di un centro di ascolto cristiano che questo lo fa ottenendo pure risultati. Affronto la questione nel modo più freddo e laico possibile perché non sono un frescone e so bene quanto questo sia un nervo scopertissimo. La Bachmann, anzi i Bachmann non dicono che l’omosessualità è una malattia: solo uno sciocco potrebbe sostenerlo in sede medica. Dell’omosessualità non esiste il gene e neanche il virus. E allora, si dice, perché loro dicono che gli omosessuali vanno curati? Ammesso e non concesso che lo dicano, la miglior risposta è il vocabolario. “Curare”, e così l’inglese to care, significare “avere cura”, “prendersi cura”, “attendere”, “rivolgere attenzione”, “trattare con delicatezza”, “agire con serietà”, “prendersi a cuore”, lo aveva capito persino Walter “I Care” Veltroni. Solo il riduzionismo panpatologistico che oggi tende, in mancanza di altro e in deroga a ogni senso di responsabilità soprattutto personale, a ospedalizzare ogni problema, solo la nostra società che ha impiccato l’ultimo confessore con le budella dell’ultimo confessante e sostituito tutto con psichiatri, prozac e compresse di ogni genere può equiparare automaticamente “cura” a “dottore”. Nel caso di specie, “curare” vuole dire affrontare il problema guardando dritto negli occhi il prossimo come persona e non come oggetto sessuale. “Omosessuale” è un aggettivo: usarlo in modo sostantivato serve solo a dimenticare il nome a cui si attribuisce, cioè appunto “persona”, e immaginare che sia tutta una questione di gusti, di orientamenti e di funambolismi sessuali distinti dall’umano.
“Curare” una persona omosessuale significa dunque prendere sul serio la sua umanità tutta, il che è una cosa di grande livello di cui di solito si occupano (bene) le persone che dell’umano hanno una idea nobile, per esempio le persone animate da fede cristiana, per esempio i cristianissimi coniugi Bachmann. “Curare” vuol dire amare. Per questo i coniugi Bachmann tirano in ballo persino la preghiera. “Curare” qui significa godere di libertà pari a quella rivendicata da ogni Gay Pride: dire che l’omosessualità è un disordine. Molti non saranno d’accordo, ma la libertà di parola e di pensiero è un caposaldo della nostra civiltà o no? I coniugi Bachmann, del resto, la pensano in modo identico a D.A.F. de Sade che mica scriveva i suoi racconti di pirotecnie sessuali a due, tre, quattro ed "n" partecipanti di sessi assortiti per concorrere al premio Perfetta Educanda. Il “divin marchese” scriveva per convincere sé e i lettori che disordinato il sesso attizza e fa compiere alla rivoluzione passi da gigante. Ecco, De Sade poteva godere di quella libertà di parola e di pensiero che gli faceva tessere le lodi del sesso di gruppo e gay proprio in quanto sublimemente disordinato, mentre ciò ai coniugi Bachmann è vietato. Per loro “curare” significa riportare una persona omosessuale ad amare l’ordine di sé, delle cose, della natura. Punto. Talora poi ciò accade e così qualcuno la pianta lì, si riordina, si sposa anche, e mette pure al mondo dei figli. Dirlo, scriverlo e addirittura giustificarlo è la cosa più “politicamente scorretta” che esista oggi al mondo. Ma non muta la realtà. Perché chi sostiene che il disordine coscientemente come tale promosso da De Sade è un “diritto umano” dovrebbe essere degno di sedere alla Casa Bianca mentre chi pur senza condividerne gli orientamenti diviene così tanto amico di una persona omossessuale da piegare assieme a lei il ginocchio nella preghiera non dovrebbe, non potrebbe? È anche per questo che i “Tea Party” avanzano.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana.