Questa crisi colpisce soprattutto le donne
24 Novembre 2008
Lo tsunami della crisi sta sicuramente determinando delle conseguenze negative sull’occupazione, tanto in Italia quanto a livello europeo.
I dati statistici – soprattutto per quanto riguarda la Ue – non sono sempre puntuali e solleciti nel rendere testimonianza dei processi in atto. In particolare, però, deve essere preso in considerazione l’andamento dell’occupazione femminile che, nel target di Lisbona 2000, costituiva una delle sfide più importanti per l’Unione. Entro il 2010, infatti, gli Stati erano tenuti ad adottare politiche del lavoro adeguate a conseguire un tasso di occupazione medio delle donne pari al 60% della relativa popolazione in età di lavoro (15-64 anni). Nel 2006 tale obiettivo sembrava a portata di mano, nel senso che, rispetto al 2001, il tasso medio (Ue-27) di occupazione femminile era passato dal 54,3% al 57,2% (mentre il gender gap si era ridotto di 2,2 punti). Qui cominciano le noti dolenti per il nostro Paese: le donne occupate erano soltanto il 46,3%. Solo Malta aveva una performance peggiore. Eppure il tasso al femminile era aumentato dal 2001 del 5,2% e il gender gap (la differenza tra il tasso di impiego dei due generi) si era ridotto di 3,2 punti. Lo scorso anno, si era confermato il trend dell’aumento (con il 46,7% a fronte della quota del 58,3% dell’Europa a 27 Paesi) ma in mancanza di svolte tanto radicali da apparire improbabili, l’Italia non sarà in grado di raggiungere, nel 2010, l’obiettivo indicato a Lisbona 2000.
Pesano su questo ritardo due dati di carattere strutturale:
a) il dualismo territoriale, in quanto nelle regioni meridionali il tasso di occupazione delle donne, nel 2007, era pari al 31,1%;
b) la scarsa presenza al lavoro (21,9% nel 2006) delle donne in età avanzata (55-64 anni) in conseguenza dei requisiti vigenti per il trattamento di vecchiaia (60 anni di età e almeno 20 anni di contribuzione).
Eppure, anche quest’ultimo dato presenta degli aspetti interessanti. L’incremento dell’occupazione della fascia d’età compresa tra 55 e 64 anni (altro target strategico per la Ue che a Lisbona 2000 assunse l’obiettivo di un tasso pari al 50% entro il 2010) è risultato maggiore per le donne che per gli uomini. Dal 2001 al 2006 questo segmento di popolazione occupata è passato, nella Ue-27, dal 28,2% al 34,8% per quanto riguarda le donne; dal 47,7% al 52,6% nel caso degli uomini. In Italia si sono avuti, invece, gli andamenti seguenti: le donne occupate sono passate dal 16,2% al 21,9%, gli uomini dal 40,4% al 43,7%. Ciò dimostra che gli interventi sull’età pensionabile (negli ultimi anni più consistenti, nei fatti, per le donne che per gli uomini) hanno "aiutato" anche l’aumento dell’occupazione. Sempre nel periodo considerato, è diminuito il tasso di disoccupazione in misura maggiore per le lavoratrici che per i lavoratori: le prime sono passate dal 13% all’8,8%; i secondi dal 7,4% al 5,4%; il gender gap dal 5,6 al 3,4.
Un altro dato interessante riguarda lo sviluppo del part time (che è una misura fondamentale per incrementare l’impiego delle donne: nei Paesi Bassi, ad esempio, il 75% delle donne lavora a tempo parziale a fronte di un tasso di occupazione femminile superiore al 67%). In Italia le lavoratrici che si avvalgono di questo rapporto di lavoro sono passate dal 16,7% del 2001 al 26,6% del 2006 (tuttora 5 punti al di sotto della media Ue). Esiste un gap di genere anche per quanto concerne la c.d. flessibilità. La quota di contratti a tempo determinato riguardava, nel 2006, il 15,8% delle donne (11,9% nel 2001) e l’11,2% degli uomini (8,3% nel 2001).
Ma il vero gap di genere (in Italia e nella Ue) lo si trova osservando il tasso di occupazione nel caso di donna o di uomo senza o con figli. In Italia le lavoratrici senza figli sono occupate (il dato è del 2006) in misura del 66,7%; gli uomini addirittura dell’80,7%. Se hanno dei figli la quota degli uomini sale addirittura al 93,8%, mentre quella delle donne scende al 54,6%. Un analogo fenomeno si rileva nella Ue-27. Le donne senza figli sono impiegate in misura del 76% (gli uomini dell’80,8%); se hanno figli la percentuale scende al 62,4 (per gli uomini sale al 91,4). In sostanza, da noi, quasi una donna su due (con figli) non entra o esce dal mercato del lavoro, mentre gli uomini-padri sono sollecitati ad entrarvi, se ancora ne sono esclusi. Il problema della c.d. conciliazione è dunque cruciale. E’ incoraggiante, invece, la distribuzione per genere dei manager. In Italia nel 2001 le donne erano il 17,8%; nel 2006 la quota femminile è salita al 32,9%, mentre gli uomini sono scesi dall’82,2% al 67,1%. Il dato è sostanzialmente allineato con quello della Ue-27. Più complicata è la distribuzione per sesso dei membri dei parlamenti nazionali. Dal 2004 al 2007, nella Ue-27, sono rimaste immodificate le quote rispettivamente del 23% delle donne e del 77% degli uomini. In Italia le donne sono passate dal 12% al 17%.