Questa storia della cittadinanza puzza tanto di “nostalgia canaglia”
25 Novembre 2011
Questa cosa della cittadinanza immediata ai figli degli immigrati sa tanto di rigurgito nostalgico per i bei tempi in cui, con la copertura di legioni di pseudo intellettuali e di canzonettari seriali, con il favore di una piazza ignorante e conformista e, soprattutto, con le tasche piene di rubli il PCI si poteva permettere di violentare a piacere, in un vortice di provocazioni continue, le più elementari regole del buon senso, con l’obiettivo, neppure tanto celato, di gettare le basi per il ribaltamento della democrazia.
Del resto, la cronica arrendevolezza della DC, da sempre più interessata all’estensione ed la mantenimento delle proprie clientele che alla salute del Paese, consentì al luna park comunista (la futura, gioiosa macchina da guerra) di girare per molto tempo a pieno regime. Sta di fatto che, per anni, la tenuta sociale della Nazione fu appesa ad un sottilissimo filo, attorno al quale danzarono a lungo feroci lame e affilatissime di scimitarre rivoluzionarie.
Oggi, certo, la situazione è diversa. L’opinione pubblica è, almeno in parte, più informata, “destra” non equivale più ad un tabù (tranne che nelle sparate alcoliche di qualche reduce di oniriche stagioni partigiane) ed è ormai evidente a tutti (nonostante un recente ritorno editoriale di letteratura d’area) che il Capitale è meglio averlo in banca piuttosto che sul comodino.
Questo ha complicato notevolmente le cose per i numerosi non morti ancora in circolazione, costretti, negli ultimi anni, a nascondersi dietro scialbe posizioni liberal ed ecologiste, per garantirsi la possibilità di frequentare il palcoscenico del discorso pubblico. Epperò, sotto ceneri bianchissime, l’elitaria aspirazione antidemocratica cova come brace vigorosa.
Poco male, allora, se, per cullare vecchie aspirazioni, si finisce per servirsi di un impacciato, ma evidentemente ambizioso presidente liberale di una università del business. Non sarà la prima volta che la rivoluzione avanza sotto mentite spoglie (e, del resto, la scaltra operazione ed il suo architetto possono vantare, addirittura, il prestigioso precedente del grande Ulisse, indimenticato artefice di geniale fregatura equina).
Ed ora che il ligneo cavallone è pure riuscito a farsi aprire la porta della sala caldaie dei palazzoni dell’Euro (anche sentitamente ringraziando), attirando a sé la malposta riconoscenza di troppi, meno difficoltoso sarà riprendere in mano il filo gagliardo della provocazione sociale, rimasto solitario a penzolare per troppo tempo.
L’idea è la stessa di quando la gioventù ancora sorrideva beata, cullandosi in proletarissime chimere: creare falsi obiettivi di grande presa sulle coscienze, per fornire all’opinione pubblica, che sempre le anela, ghiotte occasioni di spaccatura al proprio interno (soffiare sul fuoco, talora si dice), accreditandosi, poi, come unica alternativa al disastro civile, non appena le situazioni divengono incandescenti ed il bisogno di ristabilire nuovi (o vecchi) equilibri si fa impellente. Fantasie? Parecchio recenti, direi.
Ecco, dunque, affacciarsi prepotente la necessità di dotare tutti i piccoli extracomunitari, più o meno casualmente nati in territorio patrio, di piena cittadinanza. Ovviamente, nessun principio di comune buon senso, ma solo qualche assurda astrazione, in grado di competere a pieno titolo con le peggiori seghe mentali di Zenone di Elea, potrebbe mai giustificare un simile provvedimento. Ma tant’è.
Ma non sono aride questioni legali le leve giuste per fare della questione dei micro stranieri un martello pneumatico sociale. Meglio, molto meglio puntare sui sentimenti della gente, oltre che su banali raggiri dialettici, che raccontano di un’Italia in grave emergenza demografica, senza chiarirne seriamente le cause. Già, perché alla base di questa biblica carestia di italici bebè, ci sono sempre loro: i demagoghi dal diritto facile, che, nel giro di qualche decennio, hanno trasformato l’Italia (e l’Europa e l’intero Occidente) in un posto in cui non si crea più ricchezza, ma solamente tonnellate di suoi surrogati cartacei, buoni solo per finanziare politiche sociali demenziali e per sostenere il più sofisticato sistema di disincentivazione al lavoro che sia mai stato concepito (il tutto, con la recente, inaspettata benedizione di un inedito Giuliano Ferrara che, dagli schermi di Radio Londra, sta cercando di fondere, in impossibile sintesi e goffa, principi liberali e keynesiani, facendosi energico e, ahimé, confuso sponsor di sempre più feconde stamperie governative).
Epperò, se dovessimo continuare a discorrere della questione, finiremmo anche noi nel trappolone teso all’opinione pubblica. Non ci resta, quindi, che sperare in una decisa presa di posizione di coloro i quali avevamo scelto per governarci e che sono poi saltati come i tappi delle infinite bottiglie di spumante prosciugate nel corso dei recenti festeggiamenti per la nascita del governo della sobrietà.
Ciò detto, e sempre con la cautela necessaria ad evitare il bolscevico raggiro, ci sembra giusto proporre il seguente, inquietantissimo e non remoto scenario. Fattrici islamiche (in attesa certa di maschietti) opportunamente spedite allo sgravio tra le lenzuola dei nosocomi patri, mettono al mondo piccoli cittadini italiani del nuovo tipo, velocemente spediti, dopo aver passato il periodo dello svezzamento a spese dell’ignaro contribuente, verso il reale paese di appartenenza, dove, per i successivi 18 anni, verranno addestrati nelle più rinomate e malfrequentate madrasse, con l’obiettivo di farne altrettanti maomettani modello.
Al compimento della maggiore età, i velenosi pacchi regalo saranno pronti per tornare in Italia, giusto in tempo per l’apertura delle urne della prima tornata elettorale utile: magari proprio in occasione del referendum, preteso a furor di piazze dementi (non c’è mai limite al peggio), per la introduzione, nelle sempre più numerose moschee italiane, della sharia. Direi che basta questo esempietto per consentire di classificare la recente, presidenziale proposta come una genuina stupidaggine.