Questioni di Frontiera. L’Europa romantica e i Balcani
10 Febbraio 2008
È durante il Romanticismo che nascono conflitti destinati a farsi permanenti nella storia europea. L’analisi di lungo periodo riesce a vederli chiaramente, grazie alle indagini di Braudel sulle civiltà che s’incontrano e si scontrano nello spazio mediterraneo. Studiare le ‘questioni di frontiera’ può essere un modo per ricomporre le ostilità attuali, a patto di stabilire opportune genealogie e risalire alle radici dei problemi politici emersi durante il XIX secolo. Il richiamo romantico alla Patria è una reazione all’universalismo e al cosmopolitismo dell’Età della Ragione, un modo anti-illuministico di tagliarsi fuori dalla storia dell’Occidente in nome di un presunto “spirito locale” che ogni gruppo etnico dovrebbe difendere strenuamente. L’anima di un popolo. L’idealismo romantico esalta questo sentimento che è in ognuno di noi, il fatto di sentirsi diversi e in fondo migliori degli altri. Il particolarismo è una delle più potenti ideologie scaturite dal Romanticismo, con ricadute sulla intera storia sociale europea tra XIX e XX secolo, e oltre. Il Volk è questo sentimento del Suolo patrio che ha qualcosa di sacro e irrazionale, una emozione che non ispira solo l’epica, la poesia e la canzone popolare, ma anche l’istruzione e l’educazione dei giovani. Gli intellettuali preromantici e romantici afferrano subito il legame inviolabile che c’è tra Storia, tradizione, cultura popolare, educazione. Le riviste tedesche e le società di storia patria del primo Ottocento investono tempo e risorse per studiare e rivitalizzare gli usi e i costumi locali. Nasce una Storia delle civiltà (kulturgeschichte) che preferisce studiare la cultura e le idee di un popolo al posto dei fatti e degli eventi storici ed economici che hanno determinato le condizioni materiali di vita di determinati gruppi sociali. La letteratura inventa il mito del pastore-guerriero, un’immagine che servirà a consolidare il potere della classe dominante, quella dei piccoli proprietari terrieri che sono stati la spina dorsale dell’antico sistema feudale diviso per caste, e che trattano con disprezzo i gentiluomini, i nobili e la borghesia arricchita. Questo stesso ceto possidente affida agli artisti e agli intellettuali l’opera di propaganda sulle montagne ‘oasi della civiltà naturale’, un idillio destinato a tenere inchiodati i contadini in un’eterna condizione di povertà e arretratezza. Perché il Volk è solo nella testa dei signori: quando Werther incontra un ‘vero’ montanaro, lacero e analfabeta, comprende quali sono i reali rapporti di forza tra le classi, così com’erano ingannevoli i Canti di Ossian che il personaggio di Goethe aveva letto all’amata Lotte.
Johann Gottfried Herder (1744-1803) fu il maggior teorico del particolarismo romantico nella Germania della seconda metà del XVIII secolo. Tra i primi a pronosticare la resurrezione delle nazioni slave dall’anonimato agricolo-pastorale in cui le aveva relegate la storia. Herder aveva letto le canzoni di valorosi che avevano ispirato Goethe e si era entusiasmato alla Canzone dolente della sposa di Hasan Aga, una leggenda di origine slava che il viaggiatore padovano Alberto Fortis aveva inserito tra le pagine del suo Viaggio in Dalmazia, pubblicato nel 1774. Una nuova sensibilità si stava diffondendo in maniera embrionale nelle nascenti opinioni pubbliche europee; da qui il successo prolungato di testi legati al folklore contadino, come la Dilettevole conversazione del popolo slavo del francescano dalmata Andrija Miosic, che ebbe enorme popolarità in Croazia tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. La filosofia della storia di Herder si basava su poche, incrollabili certezze. La lingua materna è il primo, indistruttibile marchio del “carattere” di un popolo, del suo modo di pensare e di essere, e profondamente materni appaiono i canti epici dei Balcani raccolti all’inizio dell’Ottocento dallo scrittore serbo Vuk Karadzic (1787-1864). Karadzic aveva abbandonato Belgrado ancora in mano turca e si era rifugiato nella Vienna degli Asburgo, dove si stampavano i primi giornali in lingua serba. La scoperta delle teorie romantiche lo aiutò a concepire un’idea di poesia nazionale che puntava a conquistare il cuore del popolo slavo più che a dilettarlo con stupidi ornamenti. “Parla come mangi” era il suo motto più efficace. Karadzic pubblicò una grammatica e un vocabolario del popolo serbo-tedesco-latino, predicando l’unità degli slavi meridionali mentre lavorava attivamente a fianco dei nazionalisti serbi.
Nel 1825 viene fondata “l’Ape Regina” serba, una società di intellettuali che s’ispirano al Romanticismo e che rievocano i confini della Grande Serbia medievale. I canti raccolti da Karadzic, da patrimonio orale, diventano testo stampato, manuale scolastico, materiale ideologico pericoloso proprio per la sua essenza folclorica. Era il racconto della rivolta slava contro la potenza occupante ottomana, l’eterna lotta della Croce contro la Mezzaluna, un repertorio mitico che faceva dei serbi i predestinati alla sollevazione dei Balcani, alimentando una visione del mondo stereotipata, uno stile di vita conficcato nel passato, nel ricordo della gloriosa sconfitta, e dunque nella illusione di una rivincita che non sarebbe mai arrivata. Nel 1844 il ministro dell’interno serbo Ilija Garasanin elaborò un “disegno programmatico” (Nacertanije) che ricalcava i programmi di Karadzic e che può essere considerato il piano d’azione del nazionalismo serbo in vista dell’indipendenza, ottenuta al Congresso di Berlino nel 1878. Mentre si incitavano le masse contadine al sacrificio patriottico, le grandi potenze europee decidevano gli assetti dei futuri stati balcanici con la riga e il compasso, infischiandosene delle rivendicazioni dei movimenti politici di ispirazione romantica e nazionalistica. I nuovi stati balcanici ottennero l’indipendenza, è vero, ma le questioni di frontiera che il Romanticismo aveva innescato nei delicati equilibri della politica estera del XIX secolo rimasero irrisolte. La Turchia, sostenuta da Francia e Inghilterra, continuava ad essere il perno di una politica europea tesa a garantire lo status quo, in funzione antiaustriaca e antirussa. Nella seconda met%C3