Raccontare gli anni di piombo

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Raccontare gli anni di piombo

16 Settembre 2007

Intervista a Franco Mazzola

Franco Mazzola è un avvocato piemontese,
attualmente Difensore civico della Provincia di Cuneo, che a lungo è stato deputato
per la Democrazia Cristiana dal 1972 al 1983 e senatore del 1983 al 1994. In
questo torno di tempo, più che ventennale, ha assunto rilevanti incarichi di
governo come sottosegretario alla difesa, al Commercio estero e, soprattutto,
alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti nei governi Andreotti,
Cossiga e Forlani. E’ stato quindi un politico di primissimo piano della
cosiddetta Prima Repubblica, anche se questa è una dizione che, come molti
uomini politici di quella fase della storia italiana, lui rifiuta adducendo più
che fondati argomenti.

Lasciati gli impegni di governo
nel 1981 ha scritto quasi di getto un romanzo, dedicato alla stagione del
terrorismo, che porta come titolo I
giorni del diluvio.
Questa storia è stata pubblicata anonima nel 1985 con
l’editore Rusconi ed ora, a distanza di un altro ventennio abbondante, esce con
l’indicazione del suo autore per i tipi di un piccolo ma attivo editore
piemontese, Aragno. Incontrando il sen. Mazzola non possiamo che partire da
questa circostanza. 

Senatore, perché nella prima edizione il libro uscì anonimo?
Nel corso degli anni della mia
vita parlamentare avevo tenuto un diario nel quale annotavo giornalmente i
fatti politici ma anche quelli familiari e della vita quotidiana. L’esistenza
di quel diario era abbastanza nota anche al di fuori della cerchia dei miei
amici e molti ritenevano che quelle pagine contenessero notizie inedite sulle
vicende del tempo e capaci di gettare una luce sui fatti del terrorismo ed in
particolare su molti aspetti oscuri della tragica vicenda del sequestro e
dell’assassinio di Aldo Moro: per queste ragioni scelsi di pubblicare il
romanzo come anonimo.

Ci fu qualcuno che riuscì a penetrare l’anonimato, prima dell’edizione
di quest’anno?

Sì. Quando alla fine degli anni
Ottanta, a Milano, vennero intrapresi dei lavori di ristrutturazione in quello
che era stato un covo della Brigate Rosse venne alla luce un dossier
immediatamente denominato “secondo memoriale Moro” (il primo era stato
rinvenuto, anni prima, alla scoperta dello stesso covo). A seguito di quel
ritrovamento qualcuno riesumò la storia del romanzo anonimo e dei miei diari.
Intervenne allora Valerio Riva che, in una articolo su Epoca raccontò la storia del libro rivelando l’identità
dell’anonimo; intervistato da Repubblica
confermai. Come spesso succede in questi casi vi fu per qualche giorno un
dibattito sui giornali, poi tutto si spense e tornò il silenzio anche sul
libro.   

Benissimo, ora è tutto più chiaro e le possiamo fare finalmente la
domanda canonica che, in genere, apre ogni intervista di recensione di un’opera
letteraria: perché ha scritto questo romanzo?

Dire adesso, quasi trent’anni
dopo, cosa mi spinse a scrivere il romanzo non mi riesce facile perché sono io
stesso molto incerto nell’identificarne il vero motivo. Fu, forse, l’esigenza
di esprimere, sia pure nelle licenze di una trama romanzesca, quei frammenti di
verità che avevo creduto di cogliere nel ripensare a posteriori le cose
successe in quei giorni. Fu, forse, il desiderio di esprimere pensieri e
valutazioni che avrebbero potuto trovare posto in un saggio storico-politico se
mi fossi sentito all’altezza di cimentarmi su quel terreno; ma non mi ritenevo
capace di farlo. Fu, ancora, l’esigenza di dare voce ai sentimenti che avevo
provato in modo forte ed anche doloroso ed agli interrogativi che mi avevano
angosciato durante i cinquantacinque lunghissimi giorni del sequestro Moro e
nei terribili anni che seguirono.

I personaggi che si incontrano sono totalmente di fantasia, o qualcuno
è modellato su figure reali rese note dalla cronaca del terrorismo?

Alcuni sono assolutamente
inventati, altri invece, pur essendo di fantasia, sono chiaramente
riconoscibili. In particolare ho cercato di riprodurre il dibattito interno
alla B.R. fra “falchi” e “colombe”, ho dato voce alle dissidenze in seno alla
lotta armata, ho reso espliciti i dubbi non possono non aver preso quelle
persone quando hanno fatto loro certe determinazioni.  

Lei che li ha vissuti da posizioni istituzionali, cosa direbbe oggi ad
un giovane per permettergli di capire gli anni di piombo?

Che si è trattato di un periodo
molto particolare della nostra storia, in cui, sotto la spinta del Sessantotto,
una parte della società italiana, largamente minoritaria, era giunta alla convinzione
che il raggiungimento di certi obiettivi di “giustizia sociale” potesse essere
conseguito soltanto percorrendo la via della lotta armata. Alcuni giovani di
quel periodo all’inizio pensarono probabilmente di essere dei Robin Hood, o
qualcosa di analogo, ma ben presto questo tentativo di rivelò un’esperienza
terribile, una rivoluzione che non era una rivoluzione, ma solo lo sforzo di
prendere il potere attraverso una campagna di morti. Oggi si dice che il
terrorismo brigatista era meno immorale di quello islamista, perché le loro
uccisioni erano meno indiscriminate e casuali, ma non si deve dimenticare che
venivano assassinati servitori dello Stato che compivano il loro dovere con
dedizione e, personalmente, non avevano alcuna responsabilità politica.

In particolare a cosa miravano le B.R.?  
Miravano ad ottenere un riconoscimento
politico che, se raggiunto, avrebbe trasformato l’Italia in un altro Libano,
perché era chiaro che nel momento in cui vi era sulla scena politica un
“partito armato”, anche gli altri partiti sarebbero stati legittimati ad esserlo,
creando così una battaglia politica manu
militari
, contesa in cui, peraltro, le B.R. partivano dall’enorme vantaggio
di avere già questa organizzazione dalla propria nascita.

In un’intervista Fraceschini, con Curcio fondatore della Brigate Rosse,
disse una volta che lo Stato aveva vinto sociologicamente ma non politicamente,
vale a dire aveva avuto la meglio nel confronto militare con la lotta armata ma
non era venuto incontro a quei bisogni, ancora inappagati, che erano stati alla
base del terrorismo: a suo avviso è una provocazione accettabile?

Ritengo non sia vero e, vista a
posteriori, penso che questa mia considerazione assuma uno spessore oggettivo.
Il fatto stesso che il terrorismo sia stato battuto significa che ha perso
anche politicamente e che le esigenze di cui parla Franceschini al più
chiedevano di essere soddisfatte attraverso una politica di riforme, non con
una sanguinosa sovversione dell’ordine costituito. Il fatto poi che ci sia oggi
gente che ancora uccide agitando il vessillo della rivoluzione
marxista-leninista è certo preoccupante, oltre che demenziale, ma si deve
riconoscere che il seguito di questi piccoli gruppuscoli è assolutamente nullo,
inesistente, diversamente da quanto avveniva negli anni di piombo in cui l’area
della “contiguità” era un fenomeno innegabile.

%0D

Perché dopo la fine del terrorismo è prevalso il desiderio di voltare
pagina
?
Appena chiusa quella stagione c’è
stata la caduta del muro di Berlino e di conseguenza la fine della Prima
repubblica (anche se personalmente non accetto questa definizione, perché
abbiamo ancora la stessa costituzione) e tutto si appuntato su questo passaggio
storico con una rapida accelerazione che ha rimosso il terrorismo in sé e per
sé. E alla fine Tangentopoli ha travolto anche le analisi sul terrorismo. Non rivelo nulla di inedito se
dico che dietro alle B.R. inizialmente c’erano i servizi segreti della
Cecoslovacchia e, da un certo punto in poi, quelli bulgari. Fenomeno che, in
quanto eterodiretto dal mondo comunista dell’Est, aveva così dei legami a
doppio filo con la realtà della “cortina di ferro” che separava i due blocchi,
per cui, una volta caduto il muro di Berlino, anche il terrorismo finiva per
risultare di minore attualità e comunque politicamente superato.

In merito al sequestro Moro, a suo avviso è vero quanto è stato
sostenuto, e cioè che sarebbe stata più destabilizzante la liberazione che
l’uccisione di Moro e che la cosiddetta “strategia delle fermezza” si nutrisse,
in realtà, di questa consapevolezza?

Certo, ma per le ragioni che ho
esposto sopra, e cioè che la liberazione avrebbe significato non solo una
vittoria della B.R. ma addirittura un loro riconoscimento politico, e la via attraverso
cui conseguire questo successo sarebbe stata certamente la liberazione di Moro
alle condizioni dei brigatisti. Lo Stato si sarebbe dimostrato cedevole; che
poi Craxi lo vedesse con favore solo perché questo, nella sua ottica,
indeboliva la Democrazia Cristiana è un altro discorso…

davideg.bianchi@libero.it

I giorni del diluvio, Aragno, 2007 (pp. 465 – € 12,00)