Racconti per una canzone. Una pagina dell’Occidentale tutta da ascoltare

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Racconti per una canzone. Una pagina dell’Occidentale tutta da ascoltare

Racconti per una canzone. Una pagina dell’Occidentale tutta da ascoltare

31 Maggio 2009

Questo racconto è ispirato a "Cornflake Girl", la canzone dell’americana Tori Amos. Un tributo a Tori, ad Alice Walker, e a tutte le ragazze – uvetta o cereali – che un giorno faranno pace tra loro e con se stesse.

Alla fine li ho cntati.
Davvero, non sto scherzando. Una notte che ero sveglia come un grillo li ho contati. Tutti.
Ho rovesciato il sacchetto sul tavolo e ho iniziato: 1, 2, 3… 27… 89… 258…
Risultato: i cornflakes battono l’uvetta 1012 a 126.
Che sproporzione, eh?
Proprio quello che stavo cercando: un’enorme sproporzione in cui infilarmi.
Perché io non sono come te. Io non sarò mai una ragazza cereale.

Io non sarò mai una fra tante, una che fa parte del mucchio delle “uguali”, una insapore. Una che pensa che una cosa  è giusta solo perché è giusta per tanti, una che giudica solo dall’apparenza, una che la testa ce l’ha su solo per lavarla, pettinarla e farsi la frangia. E per giunta poi, lamentarsi che non le sta mai a posto.

Io sarò uvetta.
Io desidero fortemente, con tutta me stessa, essere uvetta.
Una cosa dolce-rara all’interno del sacchetto-mondo.

Lo so che nel mondo ci sono cose ancor più rare e che godono di una maggior sproporzione… tipo – che ne so, non mi viene in mente niente – ah!, le perle nelle ostriche, ecco. O il cioccolato nelle barrette dietetiche. O le pagliuzze d’oro nel nuovo profumo di Garbo e Dolciano.

Ma io m’accontento d’essere uvetta.
Io non sarò mai come te, ragazza cereale. Mai!
Adesso che fai? Mi guardi? Sì, mi guardi. E lo fai con quegli occhi truccati da cattiva, da una che ne sa, da una che può. Ridacchi.
Ogni tua risatina è una fitta allo stomaco. Sei più forte di un’influenza, mi fai stare più male di quella volta che ho avuto la scarlattina.
Ogni volta che mi guardi desidero sparire. Ogni volta che mi chiami “buga buga” vorrei essere polvere. Ogni volta che ti passo vicino e ti vedo tapparti il naso con quella faccia a metà tra lo schifato e il divertito vorrei poter cambiare il mondo.

A volte, prima di addormentarmi, mi faccio i film nella testa.
Mi giro sul fianco sinistro, avvicino più che posso le gambe alla pancia, chiudo gli occhi e penso.
L’altra notte sei venuta verso di me, lentamente. E sempre lentamente, guardandomi dritto negli occhi, m’hai chiesto se non mi vergognavo a essere così grassa. E pure negra, oltretutto.
“Una grassa ragazza negra”. Era questo il titolo del mio film, l’altra notte.
È questo che mi fai sentire, nonostante io sappia di essere uvetta.

Io ti fissavo e piangevo. Piangevo nel mio film, piangevo nel mio letto, piango ogni volta che torno a casa da scuola. Piango di rabbia, piango per il nervoso, piango per l’umiliazione. Piango guardandomi allo specchio. Piango perché ho paura che, alla fine, hai ragione tu.
Poi, all’improvviso, cambio il film. E cambio il mondo.

Tua mamma – che non ho mai visto ma che nel mio sogno è bionda, plasticosa e con le unghie talmente lunghe che potrebbe affettarci il salame – butta nella spazzatura un mozzicone di sigaretta ancora acceso e casa tua prende fuoco. Tu sei terrorizzata, piangi, urli, chiedi aiuto ma nessuno ti ascolta.
Nessuno tranne me.

Ti guardo piangere. Mi guardo sorridere.
Poi l’istinto uvetta ha il sopravvento.
Stacco.

Sono nella tua casa in fiamme, butto giù porte e finestre, vago nel fumo, tossisco, distruggo la cristalleria, la lampada trifacciale che sicuramente hai, faccio i baffi a un tuo grosso ritratto nell’ingresso (lo so che ai fini dell’incendio questo non serve a nulla, ma è il mio film e mi prendo una piccola soddisfazione), raggiungo tua madre e la porto in salvo sul marciapiede, vicino a te. Mentre voi vi abbracciate piangendo, rientro e salvo anche tuo padre, lo yorkshire e la tua piastra aggiusta frangia.
Le cose a te più care, insomma.
Tu piangi, sei piccola così. Mi chiedi scusa cento, mille volte, sento il calore della tua mano sulla mia e la tua voce che balbetta: “amiche?”.
Sorrido fiera.

… Ora mi stai guardando fissa da dietro la pila di libri e quaderni ammassati sul tuo banco. Quanto può essere crudele una ragazzina di 14 anni?

Batti le mani e per un attimo mi ricordi Giucas Casella. Anche lui lo faceva per risvegliare dal trance la poveretta a cui aveva appena fatto fare la gallina in giro per qualche studio televisivo.
M’hai chiesto qualcosa ma io ero persa nei miei sogni di gloria e non ho capito. Allora me lo ripeti, sghignazzando e scandendo per bene, a bassa voce.
“Buga buga, avere – tu – libro – di – latino?”

Mi parli coi verbi all’infinito? Mi parli coi verbi all’infinito! Tu parli così a me? Vorrei gridare che nei temi di italiano sono io quella che prende 9 e che tu arrivi a malapena alla sufficienza! Vorrei gridare che sono in Italia da quando avevo 3 anni grazie a due persone meravigliose che mi hanno adottata! Vorrei gridare che in Nigeria stavo per morire perché la mia vera madre era una ragazza cereale come te e non ha avuto il coraggio, la conoscenza, la forza necessaria per andar contro a chi mi voleva omologata, casta, senza coscienza del mio essere donna, per sempre! Vorrei gridare il male subìto, vorrei gridare per farti smettere, vorrei gridare per farti capire!

Ma gridare non serve.
Io non sarò mai una ragazza cereale.
Io sono una ragazza uvetta.
Una ragazza uvetta con le mani che sudano, ora. Ma una ragazza uvetta.
E allora ti do quello che ti aspetti, ragazza cereale.

Ti guardo. Scosto un po’ la sedia dal banco. Abbasso la testa e le mani verso il mio zaino poggiato per terra. Mi rialzo lentamente. Ti guardo ancora e ti mostro quello che tengo fra le mani.
Sì, hai visto bene, è l’orsetto di peluche marroncino che tengo appeso alla fibbia dello zaino. Ha i capelli biondi, proprio come i tuoi.
Ha anche la frangia. Gliela accarezzo, mentre continuo a guardarti negli occhi.
Lo tengo nella mano destra in modo solenne, una santa reliquia pelosa.
Sei perplessa.
Con la mano sinistra cerco qualcosa nel portapenne.
Eccola… la matita micro-mina.
Premo un po’ di volte sul gommino che ha in cima per far uscire la punta.
Una, due, tre, quattro volte. Senza mai perdere i tuoi occhi.
Un lieve tremito sulle tue labbra. Lo colgo, ne approfitto e affondo la punta della micro-mina sulla bocca dell’orsetto. Un colpo secco, preciso.
Poi un altro, su un braccio. E un altro ancora, in mezzo alla frangia.
La tua bocca si spalanca, i tuoi occhi altrettanto.

Non è forse questo che una ragazza cereale come te si aspetta da una grassa ragazza negra come me?
La prof ti chiama. Non sei attenta. Ti richiama. Insiste. Ti sgrida. Urla.
Niente.
Ti sei persa.
“Arione portami il diario!”.
Stacchi finalmente gli occhi dai miei, ti risvegli e glielo porti, incredula.

Torni a posto. Ora sono grassa, negra e pure strega. Non mi stupirei se domani tentassi di darmi fuoco durante l’intervallo.
Non mi guardi più, sei china sul banco, scrivi qualcosa in modo impetuoso con la tua biro rosa profumata al lampone. È un bigliettino, lo pieghi in quattro e me lo lanci veloce.
Cosa mi avrai mai scritto? Insulti, forse. Parolacce. Un invito a cercarmi un buon avvocato… Trattengo il fiato e lo apro.

“Sai fare anche incantesimi d’amore? Se sì, oggi pome vieni a casa mia? C’è uno che mi piace ma non mi fila. PS: come ti chiami davvero, così la pianto di chiamarti buga buga?”
Mi scappa da ridere così forte che faccio tremare banco e sedia.
Rispondo solo: OK. Mi chiamo Mia.
E glielo rimando.

Io oggi pomeriggio ci vado a casa sua, anche se di incantesimi non so un bel niente. Però ci vado perché magari riusciamo a parlare. Perché magari mi racconta chi è quello che le piace e le posso dare un paio di consigli lo stesso.
Perché io non sarò mai una ragazza cereale.
Ma non è detto che lei non possa diventare una ragazza uvetta.
E se così non fosse… beh, almeno do un’occhiata a casa sua, scopro se sua madre fuma e guardo come sono disposte le stanze.

In caso d’incendio, farò molto prima a salvarli.
E a cambiare il mondo.

 

Annalisa Arione è nata ad Alba (Cn) nel 1979. Laureata al DAMS di Torino e diplomata presso l’Accademia Nazionale del Comico, è stata sceneggiatrice per "Camera Café" e "Piloti" e ha partecipato come cabarettista ad alcuni programmi comici televisivi.